Fonte: Corriere della Sera
di Sabino Cassese
Una volta, fino agli anni ’90 del secolo scorso, avevamo un vasto numero di enti e società nazionali. Ridotti questi, si è ampliata la sfera delle organizzazioni satelliti locali. Sarebbe ora di razionalizzare queste frange degli enti territoriali
L’inchiesta giudiziaria in corso sulla Lombardia Film Commission per la compravendita di un immobile ha richiamato l’attenzione su questa e sulle molte istituzioni similari. La Lombardia Film Commission è stata istituita da Regione Lombardia e Comune di Milano per promuovere sul territorio la realizzazione di film, fiction tv, spot pubblicitari, documentari, al fine di «aumentare la visibilità del territorio lombardo» e «diffondere l’immagine della regione», oltre che per lo sviluppo delle imprese audiovisive e del «cineturismo». A questo fine, assiste, ospita, promuove, aiuta imprese private. Fa parte di una rete di diciannove analoghe istituzioni, create e finanziate da comuni e regioni, di dimensioni finanziarie diverse, ma con compiti assimilabili (alcune organizzano anche festival e sostengono in altro modo la produzione di audiovisivi). Tutte queste fondazioni non profit, ma costose per i bilanci regionali, pur essendo tra di loro in concorrenza, sono associate in un organismo nazionale, l’«Italian Film Commissions» e persino in un «European Film Commissions Network», che ne raggruppa 98. Queste istituzioni sono un bell’esempio del tentativo di specializzazione dell’azione dei poteri pubblici, che conduce all’«ad-hoc-crazia», ma è anche indice del sempre crescente loro interventismo e del conseguente sfarinamento dello Stato.
Perché il lettore abbia una idea concreta di questo fenomeno, ricorderò che, secondo le indagini più recenti, le partecipate pubbliche, in larghissima misura locali, sono 7.300, con oltre un milione di addetti (ma solo un quarto con più di 50 dipendenti), un quarto con più amministratori che dipendenti, molte in perdita strutturale, alcune inattive o incapaci di realizzare lo scopo sociale, molte doppioni. Su questa variopinta realtà, che ricorda l’Italia del comuni medievali, causa dell’«insigne faiblesse» (Fernand Braudel) della nostra penisola, e che sfugge a una conoscenza sistematica per la sua varietà, si sono cimentati di recente, con accurati rapporti, il Ministero dell’economia e delle finanze, l’Istituto nazionale di statistica, la Banca d’Italia, la Corte dei conti e persino il Fondo monetario internazionale. Nel 2014, Cottarelli ne fece oggetto di una analisi attenta. Nel 2016 il governo Renzi ne tentò una disciplina, con l’obiettivo di ridurre il numero di questa massa di organismi da circa 8mila a circa mille. Ma il tentativo non è riuscito (il taglio ha intaccato solo il 14 per cento delle partecipate). L’errore è stato quello di voler affrontare un così grande e diversificato numero di enti dall’alto, invece di procedere come fece Ugo La Malfa nel suo famoso rapporto dell’aprile 1951 su «la riorganizzazione delle partecipazioni economiche dello Stato», che partì dall’analisi economica, settore per settore, società per società. Non si governa una realtà tanto magmatica se non la si conosce e valuta dall’interno. L’altro errore è stato quello di trasferire vincoli pubblicistici su questo universo regolato dal codice civile, con la conseguenza di diminuire o annullare i benefici della veste privatistica delle società veramente utili e di non frapporre sufficienti limiti per quelle inutili.
Le conseguenze di questi insufficienti tentativi di porre rimedio sono indicate dal rapporto del febbraio 2020 del Fondo monetario internazionale. Questo ha osservato che le disposizioni dettate nel 2016 sono state indebolite o rovesciate e che la complessità e le incertezze nell’applicazione ne hanno fortemente attenuato l’impatto.
Una volta, nei decenni iniziali della storia repubblicana, era inibito agli enti territoriali di ricorrere all’istituzione di società e fondazioni. Poi, le maglie si sono allargate, ma si è mantenuto un controllo indiretto, di ordine finanziario. Ora è venuto meno anche quello, con la conseguenza che il nostro è divenuto uno Stato «à la carte», dove ognuno si serve come crede e nessuno si pone poche essenziali domande, che proverò a riassumere, facendo proprio riferimento alle «Film commissions».
La prima: è ragionevole che le Regioni si interessino di cinema e audiovisivo? Non dovrebbero piuttosto dedicare le loro energie alla sanità, ai trasporti, all’assistenza? Se il cinema rientra nell’ambito della cultura, non dovrebbe interessarsi anche di questo il Ministero dei beni culturali e del turismo? La seconda: se le esistenti diciannove istituzioni locali-regionali si riconoscono come omogenee, tanto da associarsi sia a livello nazionale, sia a livello sovranazionale, perché poi seguono regole diverse nella gestione (ad esempio, alcune applicano le regole sulla trasparenza, altre sembrano dimenticarle)? La terza domanda riguarda tutto l’ambito delle partecipate: se da queste dipende un milione di persone, perché mai continuiamo a sostenere che gli addetti delle pubbliche amministrazioni sono circa 3 milioni e mezzo? Non dovremmo aggiungervi anche questo altro milione, con la conseguenza di smentire coloro che sostengono la tesi secondo la quale il rapporto dipendenti pubblici-popolazione sarebbe in Italia tra i più bassi d’Europa (ciò che consente di far partire nuovi concorsi in abbondanza)?
Una volta, fino agli anni ’90 del secolo scorso, avevamo un vasto numero di enti e società nazionali. Ridotti questi, si è ampliata la sfera delle organizzazioni satelliti locali. Sarebbe ora di razionalizzare queste frange degli enti territoriali. Se ne accorgeranno coloro che vogliono ridurre parlamentari, vitalizi, indennità?