24 Novembre 2024

Il progetto di legge di cui si discute è un formidabile colpo di piccone contro ciò che sopravvive dell’amministrazione centrale e dell’unità nazionale

Non ho mai conosciuto qualcuno che, nato a Roma, non si dicesse «romano» ma «laziale» (che semmai, come si sa, oggi significa perlopiù uno che tifa per la squadra di Ciro Immobile). Egualmente, mai ho sentito un napoletano presentarsi come «un campano» o qualcuno nato a Torino dirsi di primo acchito piemontese invece che torinese. Anche di chi sia nato alla Giudecca scommetterei quello che volete che non gli verrebbe mai in mente di non dirsi veneziano ma «veneto».
Scrivo questo per sottolineare quanto dovrebbe essere noto a tutti: e cioè che storicamente in Italia l’identità cittadina è sempre stata estremamente più forte di quella regionale. «L’Italia è un Paese di città» diceva Carlo Cattaneo: di città con intorno il proprio contado (cioè la provincia). Pochi sanno che in qualche caso i confini e le denominazioni regionali oggi in uso furono addirittura letteralmente inventati subito dopo l’Unità per pure ragioni statistiche.
Anche al momento di scrivere la Costituzione l’istituzione di un ordinamento regionale fu voluta solo dai cattolici in omaggio alla loro antica diffidenza verso lo Stato unitario, e alla fine accettata più o meno malvolentieri anche dagli altri costituenti ma solo come una generica istanza di decentramento di tipo amministrativo. Nulla di più.
Tuttavia, negli anni ‘90 del secolo sorso, in coincidenza con la disintegrazione della Dc e con la crisi della prima Repubblica, una significativa richiesta regionalista — talvolta con un esplicito sottinteso federalista se non addirittura secessionista — emerse nel nord e specialmente nel nord-est del Paese. Fu, come si sa, l’inizio della battaglia della Lega. A proposito della quale va considerato, tuttavia, che dal 1989 ad oggi in nessun turno di elezioni politiche o regionali la Lega stessa ha mai superato a livello nazionale il 20 per cento dei voti, e in trent’anni solamente tre volte essa è riuscita ad andare oltre il 10 per cento (alle politiche del ’96 con il 10,7; alle regionali del 2010 con il 12,28; alle politiche del 2018 con il 17,37). A riprova del consenso evidentemente minoritario che presso l’opinione pubblica ha sempre riscosso e continua a riscuotere quello che è il suo principale tema identitario.
Ancora più strabiliante quindi (in realtà fu un disperato tentativo di togliere comunque voti al centro destra nelle imminenti elezioni politiche) appare la svolta decisa nel 2001 sulla base di una risicatissima maggioranza, dal governo Amato sostenuto dalla sinistra, in particolare dai diesse guidati da Walter Veltroni. Si tratta della svolta che ha riformato il titolo V della Costituzione stravolgendo l’impianto originario del regionalismo. Innanzi tutto attribuendo tanto allo Stato che ai Comuni, alle Città metropolitane, alle Province e alle Regioni il medesimo rango in quanto elementi costitutivi della Repubblica. Il che ha voluto dire che tutti quegli enti substatali hanno perso la loro precedente connotazione di stampo prevalentemente territoriale per diventare, viceversa, attori di primaria importanza nella definizione dell’attività normativa generale, in certi casi anche internazionale, del Paese.
Si annuncia ora, con il progetto del ministro Calderoli sull’ «autonomia differenziata», un ulteriore, formidabile passo avanti verso la sostanziale messa in mora, in Italia, dello Stato centrale a vantaggio delle Regioni.
Di fonte alla quale è impossibile non porsi preliminarmente una domanda: è ammissibile che la prospettiva neoregionalista (ma in realtà dalle tinte federaliste sempre più marcate) proceda senza che si senta il bisogno (ad esempio con un libro bianco) di fare un bilancio di ciò che ha significato l’attuazione dell’ordinamento regionale? Ad esempio: com’è cresciuto negli anni e a quanto ammonta oggi il numero dei dipendenti regionali? Con quale percentuale di spesa sul bilancio delle regioni? Quali sono oggi le principali destinazioni della loro spesa? Ancora: è vero o non è vero che l’istituzione delle Regioni non ha significato alcun calo delle spese dello Stato centrale? Per finire: in quale misura le legislazioni regionali hanno varato nuove, asfissianti, procedure autorizzative per un gran numero di ambiti in precedenza esenti ovvero hanno reso più complicate e macchinose le procedure esistenti? E quindi più complicata la vita dei cittadini?
Detto ciò appare davvero sorprendente innanzi tutto il modo in cui il nuovo regionalismo dovrebbe essere attuato. Vale a dire attraverso la stipula di una serie di intese tra lo Stato e ogni singola Regione — ogni intesa diversa dall’altra nei contenuti, della durata determinata solo come tempo massimo (dieci anni) ma per il resto cancellabile e modificabile a piacere in ogni momento e anche rinnovabile o no a piacere. Non si tratta forse di un singolarissimo meccanismo che equivale di fatto a una reale frantumazione dello Stato unitario senza che peraltro neppure si dia vita a uno Stato federale di fatto? Non solo con questo sistema ogni italiano che cambi regione si troverà domani alle prese con un universo di regole, di procedure, di diritti e doveri nuovi, ma la mutabilità nel tempo di ogni singola intesa (con relativa decadenza o mutamento delle regole) si prospetta come la potenziale anticamera di uno strascico enorme e interminabile di contenzioso giudiziario amministrativo per interessi lesi.
Quanto alle materie nelle quali in seguito a ogni singola intesa potrà esercitarsi la potestà normativa delle Regioni, il ddl Calderoli non solo lascia inalterato l’elenco di cui all’art.117 della Costituzione con le assurdità ivi contenute (grandi rete di trasporto e di comunicazione, produzione e trasporto dell’energia, ecc.) ma lascia impregiudicata «l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» con relativa «compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale».
A contenere un tale sconfinato oceano di possibilità sta la diga rappresentata dalla formula del «senza ulteriori oneri per la finanza pubblica» che a scopo di rassicurazione il disegno di legge ripetutamente evoca. Ma chi ha un po’ di memoria ricorda bene come esattamente la medesima diga, assolutamente la medesima, fu alzata mezzo secolo fa quando si trattò di varare il primo ordinamento regionale: con quale strepitosa efficacia si è visto in questi decenni.
La verità è che, a dispetto di ogni infingimento, di ogni cautela sulla carta, il progetto di legge Calderoli costituisce un formidabile colpo di piccone contro ciò che ancora sopravvive del nostro Stato e dell’unità della nazione. E a questo proposito è difficile non riflettere amaramente sul paradosso di un sistema politico che fa sì che ciò avvenga proprio con un governo guidato da chi da sempre ha fatto dell’uno e dell’altra il cuore della propria identità.

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