In molti sostengono che in Italia esista una vera e propria questione salariale, ma quanto guadagnano davvero gli operai italiani? E come è composta la loro busta paga? Di stipendi si parla spesso e a vanvera e l’argomento di volerli aumentare in genere viene utilizzato nella politica italiana per armare una polemica o per strappare un applauso televisivo più che per studiare gli eventuali percorsi. E allora se si vogliono evitare le chiacchiere senza costrutto conviene partire da indagini sul campo, come quella resa nota nei giorni scorsi dall’Unione Industriali di Torino e frutto di una collaborazione tra ben 12 territoriali del Nord aderenti a Confindustria. Per realizzare la ricerca sono state coinvolte circa 800 imprese che hanno utilizzato informazioni relative a 60 mila loro dipendenti. Il primo e più importante risultato parla di una crescita media dei salari nel 2021 nella misura dell’1,8%. La retribuzione media per le tute blu si attesta a 27.500 euro annui con le ovvie differenze determinate dal livello di specializzazione: gli operai generici si fermano a 24 mila, gli altamente specializzati e polivalenti superano i 30 mila. Gli impiegati hanno una paga media di 38.400 l’anno, i quadri superano i 69 mila, i dirigenti arrivano a 129 mila.
Un operaio al lavoro: la retribuzione media si attesta sui 27.500 euro annui
Le aziende internazionalizzate pagano i loro dipendenti in media il 10% in più. Il gender gap vede, nella produzione, le donne penalizzate del 10% mentre, secondo la ricerca, nel marketing e nelle risorse umane gli stipendi «rosa» invece sono più alti del 10 per cento. Un dato inedito. Nel complesso i lavoratori con competenze digitali guadagnano in media il 2% più dei colleghi, con punte anche del 6-7%. E di conseguenza un giovane under 35 con cultura 4.0 prende 32 mila euro l’anno contro i 30 mila di un coetaneo analogico. «Il valore di mercato delle competenze digitali si può dunque stimare nel 7%» recita l’indagine curata in collaborazione tecnica con Odm Consulting. I neo-laureati hanno una retribuzione di ingresso tra i 23.500 e i 25.500 euro l’anno, con differenze tra chi possiede una laurea triennale e chi una magistrale. Risultano decisivi nel favorire la dinamica salariale la dimensione aziendale delle imprese e l’indirizzo di studio: i laureati magistrali nelle materie tecnico-scientifiche godono di un salario iniziale superiore ai 2 mila euro al mese.
Incentivi e welfare
Dati altrettanto interessanti vengono fuori dalla sezione dell’indagine dedicata alla composizione del salario. Oltre il 71% delle imprese del campione adotta sistemi di incentivazione legati a parametri individuali e/o collettivi che permettono incrementi economici giudicati «rilevanti». E il welfare aziendale è uno strumento sempre più diffuso e presente negli accordi aziendali.
È in crescita, soprattutto nelle aziende più grandi, anche la convertibilità dei premi di risultato in benefit: la sceglie il 30% dei dipendenti, anche perché per incentivare la trasformazione è prevista una maggiorazione del valore di premio pari al 20%. Di conseguenza la quota finale di premi convertiti sfiora il 45% e i lavoratori hanno 11 mesi per utilizzare il credito generato.
Angelo Cappetti
Infine lo smartworking: al di là dell’emergenza, poco più del 30% degli addetti ha la possibilità di svolgere la propria attività da remoto. Se nella logistica e in produzione è raro trovare lavoratori agili, nel marketing e nei sistemi informativi la diffusione è superiore all’80%. Il data scientist, ad esempio, lavora da remoto nel 97% dei casi e per più del 50% del tempo di lavoro.
Commenta Angelo Cappetti, direttore dell’Unione Industriali di Torino: «Noto con favore che c’è stato un aumento dei salari da parte delle imprese, per fare un passo in avanti più consistente però è necessaria la riforma del cuneo fiscale che premierebbe i dipendenti e consentirebbe loro di avere in busta un reddito disponibile maggiore». Ma attenzione: «Nella dinamica delle paghe emerge sempre di più l’importanza delle competenze tecnico-scientifiche e i genitori farebbero bene a tenere a mente questi numeri nell’orientare le scelte dei propri figli».
Inquadramenti dinamici
Secondo Maurizio Sacconi, ex ministro e osservatore sempre attento del mondo del lavoro, «da questa indagine emerge una straordinaria evoluzione: dal conflitto alla cooperazione socio-tecnica, le imprese che hanno saputo realizzare questo passaggio non sono più delle mosche bianche». Tutto ciò è stato scandito da una diffusione del welfare aziendale anche in contesti aziendali di dimensioni contenute, e di conseguenza «le aziende non trasferiscono solo reddito diretto ma anche indiretto, compresi servizi rivolti alle loro famiglie». Sacconi è colpito da un altro dato compreso nell’indagine, «l’alto tasso di turn over e mi chiedo quanto sia involontario per ciascuna delle due parti». Evidenziando così per il lavoratore un tema di avere vere politiche attive e per le aziende una maggiore capacità di fidelizzazione.
Smartworking in officina
Quanto ai criteri di assegnazione degli aumenti salariali l’indagine segnala «poco collettivo e molto personale ed è segno di un’evoluzione forte». Mancano però quote di retribuzione basate sulle skills, sull’evoluzione delle competenze e il motivo sta nel fatto che tra i lavoratori e i sindacati «non c’è consapevolezza che gli inquadramenti rigidi alla fine diventano una camicia di Nesso». Nuovi inquadramenti più dinamici peraltro non si raggiungono con le trattative romane, «ma li fai in azienda» e in definitiva se c’è un problema di giusta retribuzione «la chiave non sta nei contratti nazionali». Infine, secondo Sacconi, l’indagine non ci dà elementi sull’evoluzione delle paghe lungo l’arco della vita lavorativa e resta la sensazione di una tendenza «a pagare poco i giovani e a premiare di più l’anzianità».
Il commento di Marco Bentivogli, ex segretario generale della Fim-Cisl e ora coordinatore di Base Italia, parte dalla constatazione che il +1,8% dei salari nel 2021 «è attorno ai valori dell’inflazione, quindi a prescindere dai contratti nazionali le retribuzioni hanno tenuto». L’indagine riguarda tutto il Nord, ma si ha l’impressione che verso Est (Veneto) cresca il peso del salario oltre il Ccnl mentre ad Ovest (Piemonte) molto meno. Bentivogli sottolinea che «la professionalità paga e la polivalenza si conferma un fattore importante», che le aziende più internazionalizzate danno maggiore spinta ai salari dei propri addetti ma «la distinzione tra colletti bianchi e tute blu non indica più niente, impiegato è diventata una parola vuota». I white collars più collegati alla manifattura intelligente e all’innovazione — quindi più vicini al lavoro dei blue collars — guadagnano di più. È confortante, poi, che le competenze digitali degli under 35 vengano premiate perché in questo modo si colma il gap con il peso che tradizionalmente conserva il fattore anzianità. «Da qui la necessità di sostenere i percorsi di studio incentrati sulle materie Stem».
Una terza considerazione di Bentivogli riguarda il fisco. «Gli operai entrano o sono sulla soglia della seconda aliquota Irpef che scatta a 28 mila euro e ha un prelievo del 38% e non è una novità da poco. Da qui si spiega anche il successo del welfare aziendale che comincia a farsi largo non solo nelle grandi aziende e che ha, per l’appunto, anche una forte motivazione di risparmio fiscale». Infine lo smartworking. «Dall’indagine emerge come stia uscendo dal solo ambito office e si vada diffondendo anche in officina. Il 6,3% nella produzione e il 19% nella supply chain. Vuol dire quantomeno che si sta consolidando la tendenza ad effettuare test e collaudi da remoto».