22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

Di recente Putin sta rivelando una insospettabile fragilità. Dopo le proteste in piazza, ieri la strage nella metropolitana di San Pietroburgo

Nell’arco di pochi giorni il sistema Putin ha rivelato una insospettata vulnerabilità: il 26 marzo la grande protesta anti-corruzione guidata dal blogger Navalny, una settimana dopo dimostranti anti-Cremlino di nuovo in piazza, e ieri un sanguinoso attentato a San Pietroburgo. Vale a dire nella città di Putin mentre Putin vi si trovava, impegnato a ricevere il collega bielorusso Lukashenko.
Il trono del nuovo Zar è meno solido del previsto, allora? La sovietologia insegnava a diffidare delle cose semplici, e anche questa volta è con qualche cautela che vanno considerate le tre principali piste che possono portare a chi ha seminato morte nella splendida metropolitana di San Pietroburgo.
La prima, nessuno si stupirà, ha il marchio della Siria. Dove Putin ha imposto con la forza militare la sua volontà, puntellando Assad, contribuendo a massacrare Aleppo, garantendo a Mosca un rinnovato ruolo mediorientale in sintonia con l’Iran e la Turchia. Prima che questi traguardi fossero raggiunti, quando la partita era ancora aperta e tanto l’Isis quanto i ribelli anti-Assad chiedevano aiuto ai foreign fighters, dalla Cecenia e dal Daghestan russi partirono seimila volontari decisi a difendere la causa sunnita in Siria. Oggi i ribelli hanno perso la guerra, e l’Isis ha perso gran parte del suo territorio mentre si annuncia l’attacco finale a Raqqa e in Iraq Mosul sta per cadere. In Russia e ovunque in Europa, i foreign fighters tornano a casa: addestrati, agguerriti, pronti a consumare le loro vendette. Come può essere accaduto a San Pietroburgo.
La pista del Caucaso islamico, sunnita e indipendentista, si nutre peraltro anche di un altro elemento. Quello locale, tradizionalmente anti-russo, temprato nei secoli da guerre continue contro il potere di Mosca e semidistrutto due volte dalle campagne di annientamento volute e guidate da Putin. Oggi la Cecenia e di riflesso il Daghestan vivono sotto il pugno di ferro del proconsole putiniano Kadyrov, la resistenza non esiste più, le cellule nazionaliste sono ridotte a poca cosa e non è un caso che dopo il 2013 non si siano ripetuti in Russia, fino a ieri, i grandi attentati degli anni precedenti. Non si può escludere che la pista caucasica abbia dato appoggio e rifugio ai foreign fighters di ritorno dalla Siria. Ed è proprio una alleanza di questo genere che il Cremlino teme maggiormente in casa, mentre stravince in Siria.
La terza pista appartiene alla dietrologia, specialità meno nobile della sovietologia ma pur sempre di casa dalle parti della Moscova. Putin subisce un colpo piuttosto rude con le prime grandi manifestazioni di protesta dopo quelle del 2011, sa che la corruzione in Russia è un tema pericoloso tanto è diffusa, sa anche che Navalny è bravo nell’utilizzo di internet a fini politici, e si preoccupa per le elezioni presidenziali che si terranno nel marzo 2018. Lui resta favorito, beninteso, ma perché correre rischi e non incoraggiare piuttosto un serrate le file della maggioranza che gli è fedele, perché non criminalizzare con il sangue chi è contro Putin, come erano anche quei ragazzi urlanti pochi giorni prima? La campagna elettorale in Russia è di fatto cominciata, e questa interpretazione va citata anche se le prime due appaiono indubbiamente più credibili.
Ora, inevitabilmente e giustamente, sul Cremlino piovono gli attestati di solidarietà e di vicinanza nella lotta al terrorismo. Uno su tutti era atteso: quello di Donald Trump, secondo il quale la strage è «una cosa terribile». Può bastare, perché dietro le piazze urlanti e dietro persino l’attentato di San Pietroburgo continua ad essere giocata una partita a scacchi che Putin teme ormai di non vincere.
In campagna elettorale Trump aveva promesso un nuovo e promettente reset con la Russia, e Putin aveva reagito con espliciti compiacimenti. Cosa resta, oggi, di quel programma? Trump è assediato in casa propria da accuse e sospetti sui suoi legami con Mosca, il bilancio della difesa statunitense cresce come crescono le accuse ai russi di violare gli accordi per il disarmo strategico, il Segretario di Stato Tillerson ha nei giorni scorsi escluso di fatto una revoca delle sanzioni economiche anti-Cremlino legandole non solo a un accordo in Ucraina orientale ma anche alla restituzione della Crimea, sulla Siria come su altri dossier caldi la Casa Bianca tarda a definire la sua strategia, e ora, nel nome di Navalny, crescerà di sicuro negli Usa una campagna per imporre alla Russia il rispetto dei diritti umani.
La prospettiva del reset si è allontanata. Ma non è morta, almeno nei limiti di una stretta collaborazione contro l’Isis e contro il terrorismo in generale. Putin riceverà a giorni Tillerson, e vedrà Trump al G-20 di luglio in Germania se non prima in Finlandia. Gli dirà, come ha detto la settimana scorsa, che è pronto a collaborare contro il terrore, anche a collaborare con la Cia. L’attentato di San Pietroburgo è una tragedia, ma talvolta le tragedie aiutano a muovere la Storia.

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