La democrazia è sotto attacco violento su più fronti: si presenta però introversa e impacciata, esita e decide a metà
L’onore e la guerra. All’Onu, gli Stati Uniti hanno rotto con Israele: Joe Biden non può più tollerare le morti di Gaza e sente la pressione dell’ala sinistra del partito democratico, che detesta Gerusalemme. Ci sono anche elezioni da vincere. La stessa Washington non manda all’Ucraina i 60 miliardi di dollari essenziali per la difesa di Kiev: i repubblicani sospinti da Donald Trump lo impediscono e il presidente non forza la situazione. C’è da pensare alle presidenziali di novembre. L’Unione europea non muove passi decisivi a favore degli ucraini aggrediti da Vladimir Putin e non lo farà almeno fino a dopo le elezioni del Parlamento europeo a giugno, se mai lo farà. Sulle tragedie di Israele e Gaza, la Ue ha già da tempo deciso di dare retta alle opinioni pubbliche più assertive e di lasciare perdere la possibilità di fare scelte che vadano al di là delle dichiarazioni. Pure qui ci sono voti in gioco.
La democrazia è il sistema meno peggio tra quelli conosciuti e oggi, mentre è sotto attacco violento su più fronti, funziona così: introversa e impacciata, esita e decide a metà. Non è necessariamente il suo destino. «Non è tempo di barcollare», disse la prima ministra britannica Margaret Thatcher al presidente George Bush (padre) quando Saddam Hussein invase il Kuwait nel 1990. «Gli aggressori devono essere fermati e buttati fuori. Un aggressore non può guadagnare dalla sua aggressione». E le democrazie non vacillarono.
Prima, le società libere avevano fatto la cosa necessaria e giusta guidate dai Churchill, dai Roosevelt, dai De Gaulle e da altri leader all’altezza delle sfide che avevano di fronte. Non sempre con l’appoggio iniziale delle loro opinioni pubbliche.
È che la democrazia deve essere riempita di convinzioni, di politiche, di responsabilità, di fermezza morale. E di chiarezza di giudizio. Di leadership, soprattutto nei momenti più bui. Questo è ciò che oggi manca in Occidente.<
Vladimir Putin non ha avuto grandi successi negli scorsi due anni. Anzi. Ne ha però raccolto uno di portata tremenda. L’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, ha aperto i cancelli che tenevano rinchiusi i peggiori e malvagi spiriti revisionisti nel mondo: da quel momento, dittatori, regimi autoritari, terroristi hanno realizzato che il caos generale provocato dall’aggressione russa era la loro opportunità per cambiare il corso della storia, per farla finita con le regole internazionali, con i diritti umani, con il fastidio dell’imbelle democrazia, con l’idea di libertà degli individui e delle economie. Per affermare il loro potere e la loro visione del mondo.
Le forze che ripropongono guerre per conquiste territoriali, che vogliono ricacciare intere regioni nel buio del Medioevo e bullizzare i vicini con minacce nucleari si sono galvanizzate. Non c’è una relazione diretta tra l’aggressione all’Ucraina e lo scempio inumano compiuto da Hamas il 7 ottobre scorso. Ma la decisione di portare a termine un’operazione del genere può avvenire solo quando chi la compie ritiene che il clima sia quello giusto: nel caso specifico, quello creato dalle incertezze delle forze democratiche già sotto attacco in Europa.
Non c’è bisogno che Putin alzi il telefono perché i capi di Hamas sappiano che il momento è favorevole. E ciò vale per tutti i bellicosi del momento, qualsiasi siano le loro differenze. Per i terroristi Houthi nel Mar Rosso. Nel cuore dell’Africa, per la jihad islamica e per la brigata Wagner di matrice russa. Per i tagiki dell’Isis a Mosca. Per gli ayatollah iraniani, sponsor di pezzi di terrorismo, che forniscono armi alla Russia e si avvicinano alla bomba atomica. Per il leader nordcoreano Kim Jong-un, altro dittatore che manda armi a Putin e si balocca con il nucleare.
Nel frattempo, il Cremlino continua la carneficina in Ucraina, provoca la morte di Aleksei Navalny, reprime ogni opinione indipendente, tiene elezioni farsa, avanza minacce nucleari, usa cinicamente l’attacco terroristico nella Crocus City Hall di Mosca nel solco delle più nere dittature del passato. In 25 mesi, Putin ha trasformato il Paese più grande del mondo nel centro da cui si irradiano guerre, instabilità, disordine.
Putin, Hamas, gli Ayatollah, gli Houthi e gli altri vedono nell’Occidente, nella sua timidezza, nelle sue inconsistenze e nei suoi errori il segno di un declino delle democrazie, del diritto, delle libertà. In effetti, gli Stati Uniti sono da tempo centrati su sé stessi, sulle loro divisioni interne, sulla politica polarizzata, e gli europei si sono assopiti da decenni nell’idea che tutto il mondo volesse seguire il loro modello di superamento degli Stati nazionali mentre attorno montavano nazionalismi micidiali. L’Occidente non si è accorto di cosa si stava preparando e ha perso il controllo degli eventi (anche il fallimento delle pressioni su Netanyahu per le operazioni a Gaza è in fondo figlio di questa mancanza di strategie).
Alla lunga, le democrazie sono più forti delle dittature e dei terrorismi. Ma le leadership politiche non nascono dal nulla, dalla brillantezza di un uomo o di una donna. Nascono dall’idea che un Paese ha delle sfide e delle minacce da affrontare. Quelle di adesso ce le ha chiarite nel marzo 2023, sulla porta del Cremlino, il numero uno cinese Xi Jinping, che così salutò l’amico Putin: «Proprio ora ci sono cambiamenti del tipo che non si sono visti per cento anni; e noi siamo coloro che assieme guidano questi cambiamenti». Ha ragione Xi? Sono lui, Putin e gli autocrati minori i leader della nuova era?