22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

migranti 2

di Franco Venturini

Dietro le parole roboanti e gli aiuti che arrivano sempre in ritardo, gli sforzi diplomatici non riescono a nascondere l’impotenza dell’Occidente nella lotta all’Isis. La Siria e la Libia, a noi drammaticamente vicine per le tragedie che vi si svolgono e per i flussi migratori che producono, sono i laboratori di una controffensiva che con qualche ipocrisia la comunità internazionale prevede vincente. Ebbene, cosa ne è stato degli sforzi compiuti, e cosa ne sarà?

I negoziati di pace sulla Siria, formalmente soltanto «sospesi» mercoledì sera a Ginevra, si sono rivelati lo specchio fedele di una catastrofe strategica e umanitaria che i miliardi promessi ieri a Londra purtroppo non cambieranno. La delegazione degli anti Assad chiedeva per trattare una tregua d’armi, e Assad, aiutato dalle bombe di Putin, ha risposto sferrando una offensiva militare nella martoriata regione di Aleppo. Gli americani sempre meno influenti hanno visto cadere nel vuoto i loro appelli. L’Arabia Saudita e la Turchia hanno manovrato le loro pedine contro l’Iran e la Russia. Ankara ha imposto un veto sulla presenza dei curdi siriani che pure sono essenziali nella lotta all’Isis. Alla fine nel disastro ginevrino hanno vinto proprio l’Isis e Assad, che meglio di tutti possono sfruttare le divisioni altrui. E la Libia, a 400 chilometri dalle nostre coste? Se la situazione in Siria è disperante e annuncia nuove ondate di profughi diretti in Europa, il braccio di ferro libico è per noi ancor più minaccioso.

Gli americani sono stati i primi ad ammettere che l’Isis ha raddoppiato in Libia le sue forze portandole a 5/6 mila uomini, e John Kerry ha escluso che gli Usa possano assistere passivamente «alla nascita di un finto Califfato che punta a impadronirsi di miliardi di petrodollari». Le indiscrezioni su pezzi grossi dell’Isis che sarebbero fuggiti dalla Siria per rifugiarsi a Sirte, poi, sono frutto di un abbaglio: l’Isis ora punta anche sulla Libia, e vi manda chi è utile al suo disegno.

Come fermare allora questi tagliagole che la vicinanza induce talvolta a minacciare Roma? Esiste un progetto, al quale l’Italia ha molto contribuito. Si spera che lunedì o martedì un nuovo governo unitario venga presentato all’approvazione del Parlamento di Tobruk (la prima compagine è stata bocciata). E si spera che stavolta ce la faccia. Anche perché nei giorni scorsi è sceso in campo un mediatore segreto, il presidente egiziano al-Sisi, che ha convocato al Cairo il suo protetto generale Haftar e gli ha imposto di incontrare il premier in pectore Fayez al-Sarraj. Cosa che Haftar ha subito fatto. Basterà? Anche i parlamentari fedeli al generale ascolteranno gli autorevoli consigli di al-Sisi?

Ipotizziamo di sì. Resterà da insediare il governo unitario a Tripoli, cioè a casa di quei gruppi islamisti che hanno già promesso battaglia contro «l’esecutivo voluto dagli stranieri». Difficile. Ma il premier al-Sarraj potrebbe allora, in conformità alle risoluzioni dell’Onu, chiedere aiuto. E qui le speranze diventano temerarietà. Consideriamo il caso dell’Italia: noi forniremmo assistenza logistica, addestramento militare, sorveglianza di luoghi strategici, operazioni navali. Un intervento a metà, insomma, in appoggio a forze libiche che sarebbero invece pronte a combattere (contro l’Isis ma non soltanto, perché le inimicizie tra milizie e tribù non sparirebbero come per incanto). Se andrà così, potremo dire agli stessi libici di esserci mossi su loro richiesta malgrado la base molto ristretta del nuovo governo. Con gli alleati inglesi, francesi e americani aiuteremo le milizie amiche, come quella di Misurata, a distruggere i capisaldi dell’Isis. Scacceremo il fantasma del 2011, getteremo le basi di una cooperazione a lungo termine con una Libia stabilizzata. E potremo finalmente suonare le trombe della vittoria.

Ma quanto è realistico, questo scenario? In Libia i confini tra «buoni» e «cattivi» sono molto labili, sarà arduo per gli occidentali limitarsi ad appoggiare combattenti libici. Più probabile è una ripetizione contro l’Isis del «modello Ramadi», con aerei e truppe speciali a sostegno di reparti locali formalmente incaricati di comandare le operazioni. La corsa contro il tempo è ormai partita, e non durerà più di poche settimane. È vero, correremo il rischio di volgere contro gli occidentali il nazionalismo libico, l’Isis tuonerà contro i «crociati», tenterà di fare nuove reclute e ci riuscirà. Ma davanti al nemico assoluto bisogna scegliere. E il rischio di cadere nella trappola mediatica dell’Isis è di gran lunga inferiore a quello di vederlo crescere e prosperare, grondante di sangue, davanti a casa nostra. Forse l’Occidente sta per porre un limite alla sua impotenza.

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