22 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

di Carlo Bonini e Fabio Tonacci

L’italiano Youssef da Bologna alla jihad. Veniva dal Marocco a trovare la mamma. Poi il tentativo di volare in Turchia e infine Londra. In mezzo la radicalizzazione. La polizia lo seguiva e aveva allertato i britannici. Era stato fermato un anno fa: “Insufficienti le accuse”

PRIMA di morire, Youssef Zaghba, il terzo uomo della strage del London Bridge, ragazzo dalla doppia cittadinanza, italiana e marocchina, nato a Fez il 26 gennaio del 1995, si è fatto per due volte fantasma. È scivolato attraverso le maglie della giustizia italiana. È stato quindi ignorato dall’Intelligence e dalla Polizia britannica, che pure del suo profilo a rischio erano state avvertite dall’Aisi, il nostro Servizio interno, e dalle informazioni condivise nel database europeo Sis (informazioni di polizia degli Stati Ue). La storia ha un inizio. Il pomeriggio del 15 marzo 2016. Un martedì.

“VADO A FARE IL TERRORISTA”.
Youssef è all’aeroporto “Guglielmo Marconi” di Bologna con in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul. Al controllo di frontiera non passano inosservati né la sua evidente agitazione, né la modestia del bagaglio che porta in spalla. Uno zainetto. L’agente della Polaria si rigira tra le mani il suo passaporto e – secondo quanto è stato possibile ricostruire da tre diverse fonti qualificate di polizia – il breve colloquio che ne segue segna definitivamente il destino di quel ragazzo. “Che ci vai a fare a Instanbul con un biglietto di sola andata?”, chiede l’agente. La risposta di Youssef è tagliente. “Vado a fare il terrorista”. Il poliziotto trasecola: “Che hai detto? Il terrorista?”. Il ragazzo sorride. “Ma no. Il turista”. Della battuta, non ride nessuno. Youssef non sale sul suo aereo per Istanbul. Viene portato nel posto di polizia e gli vengono sequestrati due telefoni cellulari, sette sim, il passaporto e la carta di identità italiane, dove risulta residente a Castello di Serravalle, 35 chilometri da Bologna, a casa della madre, che viene perquisita quel giorno stesso (qui verrà sequestrato un Ipad).
La donna si chiama Valeria Collina Khadija. È una signora di 68 anni. Alla Polizia racconta la storia di quel ragazzo, suo figlio, e della sua famiglia. Che è vissuta a Fez, in Marocco, fino al 2015, quando suo marito Mohammed, marocchino di 55 anni, commerciante, padre di Youssef e di sua sorella, Kauthar, non comincia ad assumere modi violenti e a frequentare chierici islamisti radicali che fanno capo alla rete missionaria itinerante dei Tablig Eddawa. Fino a quando Mohammed non ripudia lei, Valeria, perché si rifiuta di fargli contrarre un secondo matrimonio.
La signora racconta di essere quindi rientrata in Italia, a Bologna. Dove vive con la figlia Kauthar (che lavora in città come commessa) e dove Youssef va ogni tanto a trovarla, in una spola tra il Marocco, Bologna, appunto, e Londra. Dove – riferisce ancora la madre – è andato a cercare fortuna. E dove, forse, Youssef cerca di tagliare il cordone ombelicale che lo lega al padre. Con cui ha convissuto in Marocco dopo la separazione dalla madre. E che con lui mostra un marcato autoritarismo religioso, al punto da imporgli, quale strada per guarire dalla depressione che mostra dopo la separazione della famiglia, ripetute sedute di “roquiya charaiya”, di lettura e recitazione ad alta voce del Corano.
E’ insomma la storia di una vita complicata quella di Youssef. Che, quel pomeriggio in aeroporto, tuttavia, non gli risparmia una denuncia a piede libero per terrorismo internazionale. E non solo perché, agli occhi della Digos della Questura di Bologna, Istanbul è la porta alla jihad in Siria. Ma perché dalla cronologia di uno dei suoi smartphone si accede a link di propaganda dello Stato Islamico e della guerra santa. Abbastanza per sospettarlo di essere un foreign fighter. E guadagnarsi l’apertura di un procedimento penale (tutt’ora aperto) di fronte alla Procura della Repubblica di Bologna.

IL PASTICCIO IN PROCURA
A Youssef tocca un ottimo avvocato di ufficio, Silvia Moisé. Una professionista cui non fa velo il sentimento di solidarietà che sul suo profilo Facebook mostra per le vittime del terrorismo islamista nelle stragi di Parigi e Bruxelles. “Vidi quel ragazzo un paio di volte nel mio studio – ricorda ora – insieme alla madre. Era taciturno. Soprattutto parlava malvolentieri con me, perché sono una donna. Detto questo, lo difesi come avrei difeso qualunque altro cliente in quella situazione. Anche perché il provvedimento di sequestro era assolutamente lacunoso”. Il 24 marzo di quel 2016, di fronte al collegio del tribunale del riesame di Bologna, composto dai giudici Grazia Nart, Andrea Santucci e Manuela Melloni, la Moisé difende quel ragazzo al meglio. Ha infatti scoperto che nel fascicolo di cui è titolare il procuratore aggiunto Valter Giovannini sono assenti sia la motivazione del decreto di convalida del sequestro, sia, e soprattutto, l’indicazione di qualsivoglia circostanza di fatto in grado di sostanziare l’accusa di terrorismo internazionale. Non una prova o un indizio di le gami con gruppi islamisti. Non un’evidenza di voler effettivamente raggiungere la Siria. Il Tribunale le dà ragione. Il decreto di sequestro viene annullato. E, il 5 aprile, a Zaghba vengono restituiti Ipad, cellulari, sim, passaporto e carta di identità. Per giunta, senza che delle memorie di quei telefoni (protetti da codici e password) sia stato ancora possibile fare una “copia forense”. E quindi guardarci dentro. Youssef, insomma, torna ad essere un punto interrogativo. Come la sua vita. I suoi contatti. Lui riparte per Londra. Ma la nostra Polizia e la nostra Intelligence interna non lo mollano.

“VIVO CON DEI PACHISTANI A BARKING. LAVORO IN TV”
In quella primavera del 2016, l’Aisi, attraverso i normali canali di cooperazione, veicola ai Servizi inglesi e a quelli marocchini il nome e la storia di Youssef. Le circostanze e il reato per cui è stato denunciato. La Direzione centrale della Polizia di Prevenzione (Ucigos) inserisce invece quel nome nel sistema “Sis”, il database dell’Unione dove confluiscono tutte le informazioni delle Polizie dello spazio Schengen. La “fiche” che lo riguarda segnala che il ragazzo è “sottoposto a vigilanza ” nel nostro Paese. Che, in effetti, è costante. Ogni qual volta Zaghba scende da un aereo che da Londra lo porta a Bologna, trova ad aspettarlo agenti della Digos della questura di Bologna che gli chiedono conto di cosa faccia, dove viva e che lo prendono a verbale. Succede a settembre del 2016 e, nuovamente tra il dicembre di quell’anno e il gennaio del 2017, quando il ragazzo è dalla madre per le vacanze di Natale. Nella prima occasione – come riferiscono due diverse fonti, una inquirente, l’altra investigativa – Zoghba racconta di aver trovato casa a Londra insieme a dei “polacchi”. “Vivo con loro e faccio il cuoco”, aggiunge. La seconda volta, invece, spiega di aver cambiato coinquilini. E mestiere. “Abito a Barking con dei pachistani. E ora lavoro in un canale televisivo in lingua araba a Londra, dove faccio il tecnico del suono”. “È tutto a posto”, assicura, prima di risalire, un’ultima volta, su un aereo per Londra.

CONTROLLO A STANSTED. LA TRACCIA DEL DENARO
Va da sé che non è a posto proprio niente. Ma è un fatto che, in quel gennaio 2017, Youssef scivoli anche tra le maglie di un controllo inglese senza che questo accenda alcuna luce. Atterrato all’aeroporto londinese di Stansted, viene fermato per un controllo dalla polizia inglese e il suo nome verificato nel sistema Sis, dove la sua storia di “vigilato” è documentata. Lo lasciano andare. E, sappiamo oggi, nessuno lo ritiene di alcun interesse. Un nome tra le migliaia segnalati in Europa come aspiranti jihadisti o foreign fighters. Fino a sabato scorso. Quando, con il senno di poi, tutto ciò che era stato ignorato o sottovalutato comincia a parlare. Compresa una traccia che, per quel poco che se ne sa, in queste ore, viene sviluppata dal lavoro di intelligence sia inglese che italiano. Un trasferimento di denaro da cittadini britannici di origine pachistana verso l’Italia.

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