Fonte: Corriere della Sera
di Salvatore Padula
I richiami alla legalità fiscale – pur con intensità ed entusiasmi diversi – sono un tratto comune di quasi ogni governo. Ma in tutti i casi senza una strategia condivisa, almeno nelle sue linee essenziali, duratura e di ampio respiro
Il premier Giuseppe Conte, indossata la nuova casacca del governo giallorosso, ha prontamente lanciato l’impegno per una «seria lotta all’evasione fiscale». Lo ha fatto la scorsa settimana fa incontrando a Palazzo Chigi i sindacati, nell’ambito del confronto sulla prossima legge di Bilancio. Ma lo aveva fatto anche qualche giorno prima in Parlamento, durante il suo discorso programmatico, affermando che le risorse per evitare l’aumento automatico dell’Iva e avviare un alleggerimento del cuneo fiscale sarebbero arrivate (anche) da «un’efficace strategia di contrasto all’evasione, da condurre con strumenti innovativi e un ampio ricorso alla digitalizzazione».
In effetti, i richiami alla legalità fiscale – pur con intensità ed entusiasmi diversi – sono un tratto comune di quasi ogni governo. Un’eccezione l’avevano fatta sia Matteo Renzi sia Paolo Gentiloni. In particolare, il neo leader di Italia Viva, nel suo discorso per la fiducia alla Camera (24 febbraio 2014), non pronunciò mai la parola «evasione», né associata a «lotta» né a «contrasto», scegliendo invece di delineare quella che sarebbe poi diventata la strategia del «fisco amico», in parte anticipata da Enrico Letta un anno prima: la legalità fiscale, questo era il messaggio, si raggiunge rafforzando l’adempimento spontaneo, la compliance, e offrendo servizi che semplifichino davvero gli adempimenti dei cittadini-contribuenti (in pratica, il primo passo verso il 730 precompilato).
Il gioco dell’elastico da un governo all’altro
Andando a ritroso, Mario Monti, nel suo discorso in Senato (17 novembre 2011), dedicò alla lotta all’evasione un intero paragrafo del programma di governo: l’obiettivo, oltre alla necessità di aumentare il gettito, era di abbattere le aliquote e perseguire una forte idea di equità, attraverso una serie di azioni, poi in parte attuate: ridurre la soglia per l’uso del contante; favorire l’uso della moneta elettronica; agevolare la condivisione di informazioni tra amministrazioni diverse; potenziare gli strumenti di misurazione induttiva del reddito; migliorare la qualità degli accertamenti.
Governo che vai, strategia che trovi. Un’ovvietà, certo. Eppure, il limite maggiore, o se vogliamo il paradosso più evidente delle azioni concrete per combattere l’evasione fiscale sta proprio in questo “gioco dell’elastico”. Sta nell’assenza di una strategia condivisa, almeno nelle sue linee essenziali. Una strategia duratura e di ampio respiro.
Al contrario, a seconda della stagione, il contrasto dell’evasione si traduce in obiettivi sempre mutevoli: più lotta al contante, meno lotta al contante; più redditometro, via il redditometro; bene le indagini finanziarie, basta con le indagini finanziarie; giù le sanzioni penali, carcere duro per gli evasori; studi di settore più forti, stop alla tirannia degli studi di settore. E avanti così, a ruota libera.
I corsi e i ricorsi di una strategia che non funziona
Lo spiegava molto bene la Corte dei conti in un documento non recentissimo, affermando che le strategie di contrasto dell’evasione funzionano poco e male perché sono caratterizzate da «andamenti ondivaghi e contraddittori». Da un lato, le ricette tendono a ripresentarsi ciclicamente; dall’altro, gli strumenti operativi usati dall’amministrazione vivono stagioni di grande euforia, per poi improvvisamente sprofondare nell’oblio.
Le limitazioni all’uso del contante sono una prova piuttosto evidente – e non certo l’unica – di questo modo di agire, se solo si pensa che in poco più di sette anni il limite è stato cambiato ben sei volte: 1.000 euro nel 2007; poi 12.500 euro nel 2008; giù a 5.000 euro nel 2010; ancora giù 2.500 euro nel 2011; di nuovo a 1.000 euro nel 2012 e poi il livello attuale di 3.000 euro, voluto dal governo Renzi nel 2015. Al punto che viene da chiedersi che credibilità (ed efficacia) potrebbe mai avere una nuova limitazione.
Incrocio dei dati e strumenti d’emergenza
A che punto siamo, oggi? Qual è il contesto nel quale si inseriranno le strategie antievasione del nuovo governo? Pur con alti e bassi, negli ultimi anni si è scelto di non enfatizzare il ricorso alle attività di controllo vere e proprie come principale strumento antievasione. Si è puntato maggiormente sull’utilizzo delle tecnologie, sulla digitalizzazione, incrociando archivi e banche dati, sia in funzione di prevenzione sia per intercettare in anticipo possibili anomalie e segnalare ai contribuenti errori-omissioni da correggere prima dell’accertamento vero e proprio. Un passaggio utile ma non indolore per i contribuenti, perché la raccolta di questi dati è avvenuta e avviene al prezzo di una moltiplicazione degli adempimenti e degli obblighi, fattura elettronica compresa, senza alcuna semplificazione reale come invece sarebbe stato auspicabile.
Contemporaneamente, si è fatto ampio ricorso a strumenti di emergenza, spesso non coerenti con le logiche di sistema – split payment, reverse charge, vincoli sulle compensazioni, obbligo di pagamenti tracciabili e altro ancora –, che al di là di ogni considerazione hanno avuto e tuttora hanno il limite di penalizzare fortemente proprio i contribuenti onesti.
L’evasione intanto non conosce crisi. I numeri sono noti. Ciò che colpisce maggiormente è il fatto che il “tax gap” non accenni a diminuire: in media, nell’ultimo triennio osservato, si sono persi circa 110 miliardi all’anno.
Un dato che rende di evidente attualità l’affermazione contenuta nella Relazione sul Rendiconto generale dello Stato, presentata dalla Corte dei conti a fine giugno, dove si legge che le modalità operative e gli strumenti utilizzati nelle attività di contrasto dell’evasione non sono «tali da determinare una significativa riduzione dell’anomalo livello di evasione fiscale che continua a caratterizzare la situazione italiana».
La verità, evidentemente, è che con la lotta all’evasione qualcosa si racimola, ma forse si enfatizzano risultati che a un’attenta osservazione diventano piuttosto ordinari. La stessa Corte dei conti, a esempio, spiega che i controlli sostanziali dell’Agenzia – ovvero quella parte di attività che si identifica realmente con il contrasto dell’evasione – hanno portato introiti per 5,5 miliardi, ovvero meno di un terzo dei 16,2 miliardi che l’amministrazione assegna alla voce «contrasto dell’evasione», segnando per altro una notevole flessione rispetto agli anni precedenti (-24% sul 2017), probabilmente effetto di un uso più diffuso del ravvedimento.
L’agenzia, come sappiamo, è ancora alle prese con i postumi della vicenda dei dirigenti nominati senza procedure di concorso e poi dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale nel 2015. E gli effetti si vedono sul campo: gli accertamenti ordinari sono in flessione (263mila, l’11,5% in meno rispetto al 2017), ben lontani dai livelli pre-2016 (circa 310mila all’anno). In calo anche i controlli complessivi, che per altro si concentrano nelle fasce di minore importo (oltre metà dei 558mila controlli eseguiti, ha dato luogo a un recupero potenziale di maggiore imposta fino a circa 1.500 euro). Colpisce anche che le probabilità di essere sottoposti a controllo continuano a restare marginali: si rischia un controllo ogni 41 anni (2,4% di probabilità).
Per contro, sono certamente positivi i dati sulla compliance (nel 2018, oltre 2,2 milioni di lettere-comunicazioni, con 670mila ravvedimenti, per 1,5 miliardi di euro). Sull’attività ordinaria occorre però fare di più, per cominciare a incidere davvero sullo zoccolo duro dell’evasione.