23 Novembre 2024

Il voto consente anche di fare un check sullo stato di salute del sistema politico degli Usa

Che cosa ci hanno insegnato le elezioni americane sulle condizioni di quella democrazia?
La prima lezione che si trae dalle vicende di questi giorni, andando al di là degli aspetti cronachistici, riguarda la vitalità di quella democrazia. L’affluenza alle urne è stata del 62 per cento (o del 58 per cento, se si segue un diverso metodo di calcolo), non lontana, quindi, da quella italiana e decisamente superiore alla partecipazione al voto nelle elezioni europee. L’elezione di Trump ha oscurato le altre elezioni, per il Senato, per la Camera dei rappresentanti, per alcuni Stati: l’America conferma che la democrazia si declina sempre al plurale. Infine, il sistema Usa conferma che queste molteplici democrazie possono servire alla popolazione per fare scelte diverse, per esempio votare per un presidente repubblicano e contrapporgli un Parlamento a maggioranza democratica.
La seconda lezione riguarda la postura cesarista del presidente eletto, quale si è notata non solo in quello che ha promesso, ma anche nel modo in cui l’ha fatto. Le recenti elezioni confermano così uno slittamento già notato dallo storico Schlesinger nel 1973 (egli aveva definito imperiale la presidenza americana) e confermato dal costituzionalista Ackerman nel 2010 (questi aveva concluso che si assiste a un declino e a una caduta della Repubblica americana).
Schlesinger aveva fondato la sua analisi sugli Stati Uniti «superpotenza mondiale» e sull’esperienza della presidenza Nixon, e l’aveva riferita principalmente alla politica estera e militare, mentre Ackerman l’ha basata sul modo in cui i presidenti sono scelti, sulla colonizzazione della burocrazia e sulla centralizzazione delle decisioni, sull’estremismo e sull’assenza di forze moderatrici, sull’abbandono del principio del controllo civile sui militari, sull’espansione del potere presidenziale di iniziare guerre senza autorizzazione parlamentare, sul governo dell’emergenza, sull’uso politico dei sondaggi di opinione, e infine sullo sviluppo degli staff legali del presidente.
La terza lezione riguarda l’emersione in politica, con Elon Musk, delle «Big Tech». L’aveva preannunciata con alcune dichiarazioni Zuckerberg, notando che la propria organizzazione somiglia più a un governo che a una impresa. Questa è l’evenienza più importante, frutto di una storia iniziata circa mezzo secolo fa, nel quale l’ordinamento giuridico americano ha consentito la crescita di giganti mondiali creando una bolla di immunità intorno ad essi (non vi sono stati né regolazione, né interventi antitrust), ciò che ha permesso la loro espansione universale, l’acquisizione di una potenza finanziaria e di influenza sulle opinioni quale non si era mai vista, e, alla fine, il salto nella politica.
Più sottile, quasi impercettibile, ma non per questo meno importante, il quarto ordine di cambiamenti avvenuti, relativi al sistema politico. Questi sono principalmente due. Una volta la macchina del partito sceglieva un candidato, ora è il candidato che governa la macchina del partito. Una volta, sul mercato della politica, l’offerta politica conquistava un consenso e una legittimazione incontrandosi con la domanda dell’elettorato; ora le cose si svolgono diversamente, come osservato da Obama nel suo libro sull’Audacia della speranza (2006), dove ha scritto «servo come uno schermo vuoto in cui persone con opinioni diverse proiettano i loro punti di vista». Trump è riuscito come pochi a rendere operativo questo nuovo modo di fare politica, in una campagna tipica dell’«età della post-verità», vuota di programmi e piena di promesse, alcune irrealizzabili. Ne deriva un «deficit crescente di capacità rappresentativa» della politica, come ha osservato nel suo ultimo libro, su Les institutions invisibles (Seuil), Pierre Rosanvallon.
Quinto: nella campagna elettorale è emersa periodicamente, ma in sordina, la chiara obsolescenza del principale organo di garanzia, la Corte suprema, ancora governata da una regola che riguarda ormai solo poche case regnanti e il papato, quella della permanenza a vita nella carica.
La domanda dalla quale sono partito è importante, ed è fondamentale dare ad essa una risposta, perché sono gli americani che hanno insegnato la democrazia moderna al mondo. Lo fecero per bocca di un giovane magistrato francese, che, appena ventiseienne, nel 1831, si imbarcò a Le Havre su un piroscafo, affrontò una traversata atlantica di 39 giorni, passò negli Stati Uniti quasi un anno, si dedicò per i quattro anni successivi a scrivere le sue osservazioni e riflessioni, e con quel libro (La démocratie en Amérique) ha posto i paradigmi di base della democrazia contemporanea.
Ora l’America è molto diversa da quella del 1831. Quando il giovane Alexis de Tocqueville la visitò, aveva circa 13 milioni di abitanti, e si estendeva solo sulla costa atlantica. Ora ha 335 milioni di abitanti e occupa un territorio che va dall’Atlantico al Pacifico. Ciononostante, possiamo ancora imparare molto dagli Stati Uniti, in particolare sui pericoli che corrono le democrazie.
Il primo insegnamento riguarda la concentrazione del potere al vertice: assicurare la stabilità e la coesione dei governi non vuol dire farvi confluire tutti i poteri. Il secondo riguarda il controllo dei poteri privati: assicurare ad essi libertà di manovra non vuol dire ignorare i pericoli che la «bigness» fa correre alle democrazie. Il terzo riguarda la rappresentanza politica: perché questa funzioni, occorrono intermediari tra popolo e governo, che operino per l’addestramento e la selezione della classe politica, come interpreti di orientamenti popolari e quali autori di scelte. L’ultimo riguarda la rotazione nelle cariche: James Madison, che fu due volte presidente degli Stati Uniti, dal 1809 al 1818, iniziava il suo scritto su Il Federalista, n. 53 (1787 – 1788), con la seguente frase: «Mi si ricorderà forse, a questo punto, una massima corrente che dice che “ove finiscono le elezioni annuali ivi comincia la dittatura”».

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