18 Settembre 2024

L’ antiprogressismo odierno non è altro che la convinzione che i nessi fondamentali con la naturalità non possono essere nella disponibilità di nessuno: né della scienza né di alcuna decisione di una qualche maggioranza

Se si polemizza contro il progressismo, come mi è capitato recentemente di fare, è necessario che innanzi tutto si chiarisca che cosa s’intende per progresso. E in verità io credevo di averlo fatto, tanto è vero che nelle prime righe di quel mio pezzo si legge testualmente: «Oggi il progressismo concepisce un solo tipo di progresso, quello scientifico-tecnico», e dunque era contro questa accezione di progresso e alcune conseguenze del suo culto che mi dichiaravo in disaccordo.
Ma non si è mai troppo chiari evidentemente se un lettore pur attento come Maurizio Ferraris, credendo di scendere in cortese polemica con il mio articolo, si lancia in un’apologia del progresso che condivido per intero. Di quale progresso si tratta infatti? Di quello, che abbiamo compiuto negli ultimi millenni per cui ad esempio, come egli scrive, se oggi li vedessimo compiere sotto i nostri occhi giudicheremmo un abominio il ratto delle Sabine o un oltraggio insopportabile il vilipendio del cadavere di Ettore compiuto da Achille. E ne trae la conclusione – e qui le cose cominciano a confondersi – che a un tale progresso, coincidente con l’«umanizzazione dell’umano», avrebbe dato un contributo sostanziale «la società e la tecnica che ne è parte o meglio la precondiziona». E per far capire poi quale sorta di tecnica egli abbia in mente per sostenere il suo assunto precisa immediatamente: «la scoperta del fuoco» e le «istituzioni», in particolare la triade «nozze, tribunali ed are».
Ma davvero è codesto, mi chiedo, il progresso che invocano i progressisti odierni? A me sembra proprio di no. Che cosa c’entra infatti l’utero in affitto o la genitorialità omosessuale con il processo di civilizzazione? Che cosa c’entra l’intelligenza artificiale o l’imminente possibilità di clonare esseri umani con l’incivilimento umano che dalle caverne preistoriche ci ha condotto alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo? Che cosa ha a che fare la corsa spasmodica alla meccanizzazione della vita quotidiana con i «progressi dello spirito umano» cari all’illuminismo? E davvero aveva in mente qualcosa di paragonabile a tutto ciò Ugo Foscolo quando come simboli dell’umano evocava le «nozze, tribunali ed are» che Ferraris cita con compiacimento?
Qui dunque c’è un equivoco fondamentale da chiarire nel quale, peraltro, può cascare solo chi desidera farlo pur di avere ragione. La natura che viene invocata da noi «antiprogressisti» come un limite – come un limite imprecisabile a priori ma tuttavia necessario – non è una forma di nostalgia per la condizione di primitività ferina dell’«homo sapiens», non è il rimpianto per l’animalità umana anteriore alla scoperta del fuoco e dell’aratro. Tanto meno è nostalgia o auspicio di un’assoluta sottomissione del genere umano agli eventi naturali (a cominciare dalle malattie). Non è nulla di tutto questo, come invece sembra credere Ferraris. È piuttosto la constatazione che proprio «l’umanizzazione dell’umano», (com’egli l’ha benissimo chiamata), proprio cioè l’acculturazione dell’umanità che dalla preistoria arriva ai nostri giorni, hanno comunque serbato alcuni nessi fondamentali con la naturalità: l’idea, ad esempio, che per dar vita a un essere umano è necessario comunque l’incontro personale tra un individuo di sesso maschile e un individuo di sesso femminile. L’antiprogressismo odierno non è altro che la convinzione che tali nessi fondamentali con la naturalità non possono essere nella disponibilità di nessuno: né della scienza né di alcuna decisione di una qualche maggioranza
Allo stesso modo, mi viene da aggiungere, come è considerato e deve essere considerato in linea di principio «contro natura» sopprimere la vita: ad esempio uccidendo gli individui afflitti da un deficit cognitivo o da una difetto fisico. È noto che si tratta di un divieto che è giunto a valere e ad essere considerato «naturale» perlopiù solo nella cultura dell’Occidente. Ma ai miei occhi è questa una riprova del fatto che anche l’idea di natura, una certa idea di natura, è un’idea culturale, cioè frutto della storia. In questo caso della nostra storia, del nostro passato. Ma per questo se la sentirebbe qualcuno di dare ragione a chi, sostenendo che quella storia è bianca, maschile e giudaico-cristiana, concludesse che proprio perciò é giusto non osservarne il lascito? E quindi magari proponesse di sposare retrospettivamente il programma T4 di Adolf Hitler?
La verità è che l’umanizzazione occidentale ha visto nel suo farsi un incontro, una compenetrazione tra natura e storia i cui esiti sono stati più volte carichi di ombre, certo, ma alla fine nel complesso felicissimi. Questo è quanto sappiamo. Che cosa voglia dire invece rompere quell’equilibrio, quella compenetrazione, abbandonando la natura e gettando a mare la storia, questo ci è ignoto. Anche se in molti sospettiamo che possa significare avviarsi verso un futuro pauroso.

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