19 Settembre 2024

La guerra in Ucraina ripropone il tema dell’ingresso dei Paesi ex comunisti, che Macron propone secondo un processo «graduale»

La crisi ucraina rimette l’Europa di fronte a una scelta cruciale fatta nei primi anni del Duemila: l’allargamento dell’Unione ai Paesi ex comunisti. E le impone di soppesarne le conseguenze nel bene e nel male, anche in vista del prossimo, delicato Consiglio europeo del 23 e 24 giugno. Poche cose come l’ansia di protezione di Zelensky ci mostrano quanto allora fosse ragionevole accogliere in seno all’Europa delle democrazie liberali chi si era appena sbarazzato del giogo di Mosca. Se anche l’Ucraina fosse entrata a suo tempo nella Ue, Putin assai difficilmente si sarebbe avventurato adesso ad aggredirla: l’ombrello europeo è, e sarà, l’ostacolo politico maggiore alle mire espansionistiche di chicchessia.
Per converso, poche cose come l’ostruzionismo filorusso del leader ungherese Orbán ci rivelano quanto fosse prematuro inglobare membri privi di una sedimentata cultura dei diritti e permeati invece da una corruzione istituzionale endemica, quali erano i Paesi ex comunisti, senza prima definire un contesto di norme che ne ammortizzasse l’impatto. Se non fossimo gravati ancora oggi dallo sciagurato fardello dell’unanimità, l’Ungheria tanto legata a Putin avrebbe una capacità di paralizzarci ben più ridotta e, forse, commisurata infine a una popolazione pari appena a quella della Lombardia. Si tratta di contraddizioni vistose, che solo una politica visionaria (e coraggiosa) può sanare domani. Come politicamente visionaria (e generosa) fu la scelta che ieri le generò.
Ricordiamolo: dal trattato di Nizza, del dicembre 2000, all’allargamento ufficiale ai nuovi membri, nel maggio 2004, l’Unione, con Romano Prodi a capo della Commissione, era permeata dall’entusiasmo di riappropriarsi del suo intero corpo, esorcizzando i demoni dei totalitarismi che tanto l’avevano piagata nel Novecento e includendo quei fratelli europei a lungo imprigionati nella cortina di ferro. Prodi non era il solo a sentire lo slancio che portò l’Europa da quindici a ventisette. Alla cerimonia nel Castello di Dublino, il premier francese Raffarin aveva «le lacrime agli occhi» e il cancelliere tedesco Schröder (non ancora putiniano) scommetteva: «L’allargamento ci renderà più ricchi». Purtroppo, a un afflato così nobile non corrispose una fortuna politica all’altezza. Il Trattato di Nizza si rivelò elefantiaco e inapplicabile. La Costituzione europea, altrettanto pletorica, fu affondata nel 2005 dal referendum francese e da quello olandese. Nell’impalcatura, pur rivista dal Trattato di Lisbona, restò la falla delle minoranze di blocco: il voto di quei Paesi in grado di paralizzare le decisioni europee impedendo di raggiungere la prescritta unanimità. Erano insomma già sul tavolo i guai che ci avrebbero afflitto in seguito.
Anni or sono, su queste colonne, Sergio Romano ricordò come ci si fosse trovati davanti a un bivio sul modo di trattare «gli orfani dell’Urss». Dare la priorità all’allargamento o, piuttosto, rafforzare l’Unione accogliendo i nuovi candidati solo in un secondo tempo? La prima strada, che poi venne imboccata dalla presidenza Prodi, portò di fatto a scrivere le nuove regole assieme a partner che non avevano tradizioni europeiste, poggiavano su burocrazie corrotte e dovevano ancora dimostrare il rispetto dei principi sui quali era fondata l’Europa, tenendo peraltro moltissimo al mantenimento di una sovranità faticosamente riconquistata dopo l’incubo sovietico. La seconda strada, abbandonata forse troppo in fretta, avrebbe puntato a irrobustire e integrare l’Unione aiutando allo stesso tempo i Paesi ex satelliti dell’Urss a sistemare le cose di casa loro, in vista del successivo ingresso nella nuova casa comune: si sarebbero creati insomma «due percorsi paralleli» di cui uno, quello interno all’Unione, si sarebbe mosso più velocemente dell’altro, quello della comunità allargata.
Non sarà difficile cogliere echi tra questo progetto d’allora, diciamo gradualista, e l’idea di una Comunità politica europea lanciata da Emmanuel Macron il mese scorso a Strasburgo e caldeggiata in Italia dal segretario democratico Enrico Letta: una sorta di Europa a due cerchi concentrici, che sappia reagire con gradualità, appunto, ma anche con efficacia, ai veloci cambiamenti messi in moto dalla guerra di Putin e dal suo disegno espansionistico.
La disgregazione del Gruppo di Visegrád (frantumatosi proprio sull’atteggiamento da tenere con il dittatore russo), la divaricazione sulle sanzioni energetiche e, soprattutto, la pressante richiesta di ingresso nell’Unione venuta da altri Paesi, Ucraina e Balcani in prima fila, rendono necessarie risposte organizzate. Le tensioni sono fortissime. Al disegno di Macron di una Convenzione che riveda i trattati (avendo soprattutto nel mirino il diritto di veto) «con necessaria audacia e libertà», tredici Paesi con in testa Ungheria, Polonia e Romania hanno risposto che l’Europa «funziona così com’è» e non ha bisogno di «tentativi spericolati e prematuri per cambiarla».
In questione, come si vede, si pone ancora e sempre il senso stesso della nostra Unione: se mero volano di redistribuzione di sussidi o, piuttosto, vera casa comune, capace di agili risoluzioni a maggioranza in politica estera, difesa e fiscalità e, perfino dotata, chissà, d’una rappresentanza popolare davvero in grado di decidere qualcosa a nome dei popoli dai quali è votata. La Comunità, alla quale potrebbero aderire invece anche Paesi non in grado di entrare subito nell’Unione, ma che dell’Unione condividono i valori, riecheggia in qualche modo pure una vecchia idea di Mitterrand, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, per agganciare all’Occidente i Paesi dell’Est (allora si pensava persino alla Russia). Non risolverebbe certo tutto. Resterebbero sul tavolo inimicizie e diffidenze dentro una confederazione ampliata forse a trentasei membri (anche la Gran Bretagna uscita dalla porta della Brexit potrebbe, volendo, rientrare da questa finestra). Gli ostacoli tecnici, normativi, geopolitici sono imponenti, tanto per modificare i trattati quanto, eventualmente, per strutturare questa sorta di associazione della libera volontà europeista. E dunque appariranno insormontabili, se non con uno strappo di discontinuità quasi rivoluzionario. Ma gli eventi terribili e straordinari di questi mesi rendono plausibile l’impensabile: persino che il «gigante dai piedi d’argilla» muova un passo, a costo di perdere qualche parte di sé pur di guadagnarsi il mondo che lo aspetta.

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