22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Roberto Sommella

Il radicamento nelle convinzioni di tutti dell’utilità di avere una sola valuta e scambi senza dazi e confini, stride con l’avanzata dei nazionalismi e il ripudio dei vincoli comunitari


L’Europa sta vivendo un grande paradosso. La disaffezione al progetto unitario dilaga mentre l’euro è sempre più forte. A sessantuno anni dal Trattato di Roma, infatti, la maggioranza degli europei non è più europeista. Lo hanno certificato quasi tutti i risultati elettorali nei paesi dell’Unione. Ad Est, al comunismo di una volta si è sostituito un sovranismo muscolare, tutto patria, fondi comunitari e fili spinati, con il sostegno dei governi. Spesso alcuni esecutivi provano a riscrivere la storia, rivedendo persino le antiche responsabilità di collaborazionismo con l’invasore nazista.
Ad Ovest, in molti paesi fondatori, sconfitti spesso gli esecutivi di centro sinistra euro-ortodossi, mietono consensi i partiti di destra e le nuove formazioni identitarie, che hanno intercettato quel bisogno della società di sicurezza e di riduzione delle disuguaglianze. In Francia, il Front, ribattezzato Rassemblement National, fa incetta di consensi da anni e non governa solo grazie alla legge elettorale col ballottaggio. Nella ricca Germania Alternative für Deutschland e il partito neo nazista Npd, costituiscono soggetti forti e radicati, soprattutto nella ex Ddr, con cui il quarto esecutivo Merkel dovrà fare i conti. L’Austria, piccolo ma cruciale crocevia della storia, è retta da un gabinetto a forte trazione di destra. Anche la Brexit non sembra più così folle, se tutti gli indicatori economici continuano ad essere ottimi. L’Italia non fa eccezione. Dalle urne è uscito un nuovo movimento, considerando il successo dei Cinque Stelle e della Lega, che si può identificare come «Italy First». Il nostro paese è così l’ultimo vagone di un treno che si è composto da tempo e ha in mano le sorti dell’Ue: può staccare la spina al paziente Europa oppure rianimarlo con il rilancio del progetto.
In un modo o in un altro, insomma, dentro e fuori il nucleo storico dell’euro, l’allergia ai rigori di Bruxelles si è istituzionalizzata. L’architettura monetaria, invece, dopo aver subito forti traumi, sta decisamente meglio. L’euro ha sedici anni. È più forte del dollaro, ne ha rotto il monopolio secolare, giace nei depositi delle più grandi banche centrali. E senza avere un governo politico alle spalle, ne’ padri storici disposti a difenderlo, resta il baluardo dell’integrazione. Di questi tempi, vista la situazione appena descritta, se non è un miracolo, poco ci manca. Sicuramente questo successo inaspettato, per come si erano messe le cose all’inizio del decennio, ha preso alla sprovvista i tanti profeti di sventura, premi Nobel per l’Economia compresi, che ne pronosticavano la fine prematura. Joseph Stiglitz, insignito nel 2001 per il suo lavoro sulle asimmetrie informative, ha parlato di «esperimento andato a male».
Paul Krugman, premiato nel 2008, continua a pensare che Italia e Europa non siano adatte ad una valuta unica. Amartya Sen, annata 1998, l’ha bollato quale «idea orribile» che divide invece di unire. Mario Draghi, nel bel mezzo dell’eurocrisi, ne sancì invece l’irreversibilità. Ad oggi sembra aver avuto ragione il presidente della Banca centrale europea. Nessuno mette in più in discussione la nuova valuta, sono spariti i sogni di ritorno all’antico e la voglia di indire improbabili referendum. Anche i tedeschi, a volte ancora inclini ad avere nostalgia del marco, di fronte all’evidenza si sono ricreduti. Con l’euro ci hanno guadagnato. Il tanto deprecato ombrello salva-spread aperto dal 2011 dalla Bce, che ha comportato un abbattimento dei tassi d’interesse, ha fatto risparmiare al ministero delle Finanze tedesco la bellezza di cento miliardi di euro. Ed è stato un vero affare anche per la Bundesbank, che ha realizzato profitti per 2 miliardi di euro (e ne verserà 1,9 nelle casse dello Stato), contro un miliardo di un anno fa.
Forse anche per questo, dopo aver guardato il bilancio dell’istituto, quello che è tuttora uno dei più fidati consiglieri della cancelliera Angela Merkel, Jens Weidmann, ha cominciato a tramutarsi da storico falco a colomba del laissez-faire monetario, tanto da dichiarare che la fase di allentamento «durerà a lungo». Questo radicamento nelle convinzioni di tutti dell’utilità di avere una sola valuta e scambi senza dazi e confini, stride perciò con l’avanzata dei nazionalismi e il ripudio dei vincoli comunitari. Si rischia il collasso finale: tornare alla cartina geografica dell’Europa del Novecento, mantenendo però in piedi un mercato e una moneta unici. Simboli economici di un fallimento politico.

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