22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Sabino Cassese

Alle elezioni del 2019 l’Ue si presenta come istituzione criticata e contesa. Ma, pur tra tante difficoltà, continua a «pedalare per stare in piedi


Pubblichiamo alcuni estratti della lectio che il professor Sabino Cassese tiene il 16 settembre 2018 alla Scuola Normale Superiore di Pisa, in occasione della seconda edizione della «Giornata in ricordo di Carlo Azeglio Ciampi», scomparso due anni fa. In onore dell’ex Presidente, studente dal 1937 al 1941, la Normale ha fondato presso Palazzo Strozzi a Firenze l’Istituto di Studi Avanzati Carlo Azeglio Ciampi.
Alle elezioni europee del 2019 l’Unione si presenta come istituzione criticata e contesa. C’è chi critica il burocratismo di Bruxelles e la sua incapacità di decidere o di attuare le decisioni. Chi lamenta la scarsa legittimazione popolare delle istituzioni europee. Chi segnala le debolezze di organismi che appaiono prevalentemente inter-governativi, e quindi, nelle mani degli Stati nazionali. Chi critica gli squilibri europei (in particolare, l’aver affidato all’Unione la politica monetaria, senza avervi affiancato la politica economica e fiscale). Chi lamenta che l’infatuazione europeista ha messo in ombra le nazioni o ha lasciato il nazionalismo nelle mani dei populisti. Chi è preoccupato dall’emergere di democrazie illiberali in Europa (Ungheria e Polonia). Chi, allargando lo sguardo, vede consumarsi la tradizionale alleanza tra Europa e Stati Uniti e il rinascere dei demoni del passato, delle lacerazioni tra nazioni, come quella tra l’Europa di Visegrad (cechi, slovacchi, polacchi e ungheresi) e le restanti nazioni europee.
Tutte le critiche alla costruzione europea fanno emergere più paradossi. L’Unione è stata frutto di un lavoro di élites nazionali illuminate. Le grandi masse, le basi dei partiti, non vi hanno contribuito. Ora che l’Unione divide, l’Unione diventa popolare, acquista legittimazione.
Il principale indicatore del successo europeo sta nell’assenza di guerre dalla seconda metà del secolo scorso, in Europa. Se si compara questa situazione con quel che è accaduto nel mezzo secolo precedente (due guerre mondiali, poco meno di 60 milioni di morti e circa 76 milioni di feriti, oltre alle ingenti distruzioni di abitazioni, industrie, strade, ponti, solo sul territorio europeo), ci si rende conto del ruolo pacificatore svolto dall’Unione.
Ci sono, poi, molti altri indicatori. La forza aggregatrice: partita da sei Paesi, Belgio, Francia, Germania occidentale, Italia, Lussemburgo, Olanda, comprende ora 28 Stati, presto destinati a diventare 27, con l’uscita del Regno Unito.
La velocità con la quale l’unione è stata realizzata. In solo metà secolo era già un potere pubblico in grado di tenere a freno gli Stati. Nessun potere pubblico si è affermato tanto rapidamente.
La progressione degli ambiti di competenza. Nel 1951-1952 era il carbone e l’acciaio; nel 1957 si passò all’energia atomica e al mercato; le diverse comunità furono fuse nel 1967-1968; nel 1992 la Comunità europea perdette l’aggettivo «economica», per registrare l’ampliamento ad aree diverse da quella economica; nel 2002 cessò di esistere la Comunità del carbone e dell’acciaio; infine, nel 1993 – 2009 nacque l’Unione europea, che opera in campi come quello dell’economia, della giustizia, degli affari interni, della politica estera e della sicurezza. Si fa spesso oggi l’errore di ritenere l’Unione squilibrata perché si interessa principalmente di economia, come se quest’ultima non facesse parte della politica.
L’ampliamento della base di legittimazione. 1958: Assemblea parlamentare europea, composta di parlamentari nazionali. 1962: Parlamento europeo. 1979: elezione diretta dei parlamentari europei.
I valori condivisi. Ma «l’Europa è sempre stata come uno di quei vecchi caseggiati popolari nei quali le famiglie non vivono mai separate, ma a ogni ora mescolano e loro domestiche esistenze» (J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse).
La costruzione europea è stata paragonata alla bicicletta: per non cadere bisogna continuare a pedalare. Delors l’ha anche definita un «oggetto politico non identificato». Helmut Schmidt e Jean Monnet hanno aggiunto che l’Unione vive di crisi, che essa si costruisce attraverso la somma delle soluzioni delle crisi. Ma che accade se ai motivi di crisi interni si aggiungono quelli esterni, quelli che ne pongono in dubbio la legittimazione?
All’interno, l’Unione si presenta come un insieme di ordini legali senza una propria piena legittimazione. Delle due parti dell’Unione, la componente intergovernativa ha solo una legittimazione indiretta: il Consiglio prende decisioni per l’intera Unione, mentre i suoi membri (in particolare, quelli più forti, gli Stati creditori) hanno una legittimazione esclusivamente nazionale e operano senza il controllo del Parlamento e della Corte di giustizia.
All’esterno, l’Unione in alcune aree è più unita (si pensi all’economia, agli studi universitari, agli ordini giudiziari), in altre più frammentata, e non riesce a completare l’unione bancaria e ad affrontare la crisi migratoria.
Pur tra tante difficoltà, l’Unione, per stare in piedi, continua a pedalare, sotto la pressione anche di molti interessi nazionali, estendendo anche la sua sfera di azione, dalla qualità delle acque di balneazione al rumore dei tosaerba, al calendario della caccia, alla definizione di banana. Continua, però, a non ridurre gli squilibri interni (batte moneta, ma senza avere il pieno controllo delle politiche economiche). Interviene in ritardo. Ha necessità di periodiche revisioni (in particolare, quando si tratta del passaggio di materie dalla disciplina intergovernativa a quella comunitaria). È sottoposta a continue tensioni tra sovranità europea e garanzia delle identità nazionali. Rappresenta l’esigenza di far parlare i Paesi europei con una unica voce in un mondo che si articola sempre più un zone regionali, ma non riesce a formulare una politica estera comune, né a stabilire comuni linee di azione rispetto alle politiche migratorie. Da ultimo, si sono aggiunti due ulteriori fattori di crisi, la decisione del Regno Unito (definito una volta «la nurse dell’Europa») di abbandonare l’Unione e la marea montante dei populismi nazionalistici e – come si dice – «sovranisti».
Anche questi ulteriori sviluppi vanno considerati in prospettiva. Il Regno Unito, grazie alle clausole di «opt out», non aveva mai fatto pienamente parte dell’Unione. È prevedibile che, dal 2019, invece di stare metà dentro e metà fuori, starà metà fuori e metà dentro. I populismi antieuropei, a loro volta, hanno messo l’Europa al centro dello spazio pubblico, per cui si può dire che essa non ha avuto mai tanto successo come quando è stata tanto contestata. Infine, il calcolo delle convenienze, se consiglia di allontanarsi o di contestare per alcuni motivi, suggerisce il contrario per altri. Se l’Ungheria non vuole condividere il destino delle democrazie liberali e rifiuta gli immigrati, essa, tuttavia, ha bisogno dell’Unione per non cadere nella zona di influenza russa. Se la Polonia non accetta altre politiche europee, tuttavia, non lascerebbe volentieri l’Unione per i vantaggi che trae dalla politica agricola comunitaria. Un Paese esportatore come la Germania sarebbe danneggiato da una eventuale uscita dell’Italia dall’Unione, perché perderebbe l’accesso dei suoi prodotti a un ampio mercato. Insomma, se qualche lato o politica dell’Unione non piace ed è avversato, però, ce ne sono altri che non conviene abbandonare.

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