All’Unione serve — per fronteggiare le minacce che incombono — una leadership che ora non ha. Non c’è niente di peggio, in una congiuntura simile, di un’Europa acefala, allo sbando
Né con te né senza di te. È un’espressione sintetica che serve per fotografare i rapporti interni all’Europa nonché il guazzabuglio istituzionale che alcuni chiamano, eufemisticamente, il sistema di governo dell’Europa. È il «paradosso europeo»: da un lato, l’impossibilità per ciascuno stato di mollare gli ormeggi, liberarsi del vincolo europeo, senza pagare prezzi altissimi (come ha dimostrato Brexit). Dall’altro lato, l’impossibilità per l’Unione di dotarsi di un sistema di governo compatibile con il livello di integrazione raggiunto. È ormai da molto tempo che gli imperativi della democrazia (nazionale) e i vincoli europei sono entrati in rotta di collisione. E nessuno sa che farci. Per un lungo periodo di tempo, dalla nascita delle Comunità europee negli anni Cinquanta fino al primo decennio del XXI secolo (quando cominciano i primi scricchiolii) non c’era stato alcun conflitto, alcuna evidente incompatibilità, fra le democrazie europee e il processo di integrazione. Gli europei garantivano, a schiacciante maggioranza, il loro consenso alle istituzioni democratiche nazionali e contemporaneamente sostenevano il processo di integrazione ricavandone molti benefici. Ma ormai, almeno dal tempo del referendum costituzionale in Francia (2005), le cose non stanno più così.
In coincidenza con la progressiva perdita di forza (dopo l’unificazione della Germania) del motore franco-tedesco, vero governo dell’Europa nei decenni passati. In coincidenza con il processo di allargamento dell’Unione. In coincidenza, soprattutto, con una integrazione, economica e giuridica, così stretta da rendere gli elettori sempre più sensibili alle ricadute delle decisioni europee sulle loro vite.
Queste tendenze, già in atto da tempo, sono oggi esasperate dalla crescente insicurezza. Il ritorno della guerra in Europa, l’affermazione, entro diverse democrazie europee, di movimenti di contestazione degli establishment con conseguente polarizzazione elettorale, aumentati consensi (la Francia è, al momento, il caso più emblematico) per formazioni anti-sistema.
Il conflitto fra la logica democratica e la logica dell’integrazione è perfettamente fotografato in questo momento dalle tensioni fra i governi francese e tedesco e quello italiano. Il tentativo di Macron e Scholz di associare Giorgia Meloni agli anti-sistema di casa loro, fingendo che non ci siano differenze, è spiegato dal tentativo di due leader sconfitti, in gravi difficoltà, di salvare il salvabile, di creare muri contro gli estremisti con cui hanno a che fare nei loro Paesi. Il governo dell’Unione ne fa le spese. Ovviamente si arriverà, alla fine, a un accomodamento sulle nomine. Ma il problema di fondo resterà irrisolto.
Si noti quanto il tutto sia aggravato dalla assenza, nel gioco europeo, della Gran Bretagna. Al tempo di Brexit molti pensarono che l’Europa ci avrebbe solo guadagnato essendosi liberata, finalmente, degli «euroscettici». Valutazione sbagliata, una dimostrazione di miopia politica. Se oggi la Gran Bretagna fosse seduta al tavolo europeo, la sua presenza potrebbe servire a stemperare i contrasti, ad impedire il muro contro muro alimentato dai vincoli elettorali (nazionali) che incombono su ciascun governo europeo. Con Brexit non abbiamo soltanto perso la più importante potenza militare dell’Europa occidentale, ci siamo anche giocati la possibilità di assicurare maggiore flessibilità ai processi decisionali dell’Unione.
Sembra difficile che l’integrazione europea possa durare nel tempo senza sperimentare profondi cambiamenti nel sistema di governo di Bruxelles. Certo, soprattutto se i lepenisti vinceranno in Francia, per un certo periodo i sogni di gloria dovranno essere messi nel cassetto. Si tratterà di stare in apnea, sperando che non si sfasci tutto come piacerebbe tanto a Putin — che, difatti, si è dato molto da fare per condizionare le elezioni europee — e ai suoi amici occidentali. Un pericolo che diventerebbe ancora più concreto se Trump diventasse il prossimo presidente degli Stati Uniti e l’Europa si ritrovasse improvvisamente senza la protezione americana. Anche se si ipotizza — magari contando sul fatto che le vie della Provvidenza sono infinite — che l’Europa possa sopravvivere a una simile congiuntura politica, l’attuale assetto dell’Unione, senza decisivi cambiamenti, non potrebbe comunque reggere a lungo.
Come sempre nella storia umana, quando si arriva al dunque, sono le questioni della guerra e della pace a decidere le sorti degli aggregati umani. All’Unione serve — per fronteggiare le minacce che incombono — una leadership che ora non ha. Non c’è niente di peggio, in una congiuntura simile, di un’Europa acefala, allo sbando. Ma non è, o non è in primo luogo, una questione risolvibile a colpi di ingegneria istituzionale (ossia, disegnando nuove istituzioni). È, prima di tutto, e soprattutto, una questione di opinione pubblica. Se i cittadini europei non si convinceranno che il loro mondo è a rischio non sarà possibile attrezzare l’Europa in modo che sappia fare con successo i conti con tutto ciò che le si muove intorno. Senza di che, democrazia e integrazione continueranno a logorarsi a vicenda. È un favore che non è il caso di fare ai lupi, Putin in testa, i quali, leccandosi i baffi, sognano di fare di noi tutti un sol boccone.