Negli anni, ministri di diverso colore politico hanno contribuito a far nascere la neouniversità, stritolata da burocrazia, da attività organizzative e gestionali, da «mediane» e da algoritmi, specchio di un’idea di cultura utilitaristica e strumentale
In un addolorato j’accuse, uscito sul Corriere della Sera del 16 marzo 2004, Claudio Magris scriveva: «La vecchia, classica università aveva le sue pecche, ma una sua logica e una sua struttura organica e funzionava. La sua trasformazione – necessaria per la nuova dimensione di massa e le vertiginose innovazioni del sapere (…) – non è mai avvenuta. (…) I rammendi e i compromessi (…) l’hanno distrutta senza crearne un’altra».
Non è andata così. Negli anni, ministri di diverso colore politico hanno contribuito a far nascere la neouniversità. È un’università stritolata da burocrazia, da attività organizzative e gestionali, da «mediane» e da algoritmi, specchio di un’idea di cultura utilitaristica, strumentale, notarile, tesa a imprigionare professori e studenti in procedure standardizzate, programmate, omogenee.
Testimonianza di questa deriva è il tema decisivo della valutazione della produzione dei docenti, fondata su parametri direttamente e pigramente mutuati dalle scienze dure. Si tratta di un orientamento che sta minando dalle fondamenta soprattutto l’edificio delle humanities, come è stato denunciato in un recente convegno tenutosi all’Università di Bari («La crisi del sapere umanistico nell’Università italiana»), curato da Loredana Perla, aperto da una severa relazione di Ernesto Galli della Loggia. Perversi gli esiti, come è emerso da alcuni report, che fotografano uno scenario al collasso, afflitto da una sorta di pesantezza del quantitativo: crescita esponenziale degli articoli (47% in più negli ultimi sei anni); mercato dei «peer reviewers»; interessi poco trasparenti degli autori dei contributi e degli editori delle riviste.
Di questo meccanismo sono vittime soprattutto i giovani ricercatori. I quali, per accedere e per avanzare nella carriera universitaria, sono invitati a non dedicarsi a libri che richiedono tempo, dedizione, acquisizione di documenti: sono costretti, invece, a pubblicare frettolosamente, su riviste senza circolazione, studi iperspecialistici, di breve respiro, piuttosto descrittivi, spesso condannati all’irrilevanza, privi dell’ambizione a entrare nel dibattito pubblico e a «rimanere».
Come uscire da questo circolo? Ingenuo invocare i (presunti) fasti dell’Università del Novecento, avviare una velleitaria guerra tra le «due culture» (humanities vs. sciences) o addirittura appellarsi a un’inaccettabile immunità degli accademici. Per quanto imperfetta, la misurazione di ciò che i docenti fanno è necessaria per la tutela della credibilità del sistema universitario stesso.
Forse, però, occorrerebbe adottare un approccio propositivo. Suggerire alcuni interventi correttivi. Ripensare i criteri di giudizio. Sperimentare metriche capaci di riconoscere la qualità e l’originalità di uno studio. Salvaguardare la specificità dei saperi umanistici. Attribuire la dovuta centralità alle monografie (sì, i classici libri!). Infine, valorizzare anche le ricerche improntate all’interdisciplinarietà (come accade nei bandi europei).
Solo in questo modo potremo portarci fuori dalle secche di un’Università seppellita, nelle parole di Magris, sotto «le spoglie di una modernizzazione tecnocratica». Senza nostalgie. E senza derive ideologiche.