Fonte: Corriere della Sera
di Ferruccio De Bortoli
Per combattere l’indigenza assoluta, l’Alleanza contro la povertà propone una misura universale a favore dei residenti al di sotto di un certo reddito. Potrebbe essere finanziata anche dai privati
Uno dei meriti del governo Renzi è quello di aver avviato, già con la precedente legge di stabilità e con una delega approvata per ora dalla sola Camera, una seria lotta alla povertà in Italia. Non era mai accaduto prima in maniera così organica. Le diverse esperienze della cosiddetta social card, introdotta per la prima volta nel 2008 da Berlusconi, hanno avuto diffusione e importi limitati. Negli annunci relativi alla bozza di bilancio per il 2017 c’è però una certa disattenzione al tema, forse indotta da altre urgenze. L’impegno del ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti, di aumentare già dall’anno prossimo lo stanziamento, da 1 a 1,5 miliardi, per avviare un piano nazionale contro l’indigenza assoluta, è slittato al 2018. Osservatori maligni (non mancano mai) sostengono che i poveri non hanno lobby. E forse si pensa che votino poco, anche al referendum. Interpellato, il ministro replica: non vi è nessun rinvio, si libereranno altre risorse, in particolare 150 milioni derivanti dal riordino di vecchie misure. L’idea di un piano nazionale contro la povertà andrebbe perseguita nonostante i vincoli di bilancio. Specie quando si pensa a misure (opportune) per attrarre i ricchi stranieri o gli italiani espatriati scontando loro le tasse e ci si batte, altrettanto giustamente, affinché l’Europa riconosca le nostre spese per accogliere migranti e profughi. Non si è vista nessuna forza politica italiana gridare, parafrasando quello che è accaduto in altri Paesi, «Prima i nostri poveri».
Slogan discutibile nell’Italia cattolica con il cuore in mano che vorrebbe aiutare tutti, senza distinzione, pur sapendo di non poterlo fare. Ma invocazione d’indubbia efficacia perché, purtroppo, basata su una realtà drammatica.
I residenti in Italia, in condizione di povertà assoluta, sotto lo standard di vita minimamente accettabile, sono più che raddoppiati negli anni della crisi. Erano, secondo l’Istat, il 3,1 per cento della popolazione nel 2007. Hanno toccato il 7,6 per cento nel 2015. Se prima la povertà assoluta colpiva soprattutto anziani, famiglie numerose, di bassa istruzione, in particolare al Sud, oggi il fenomeno ha natura ed estensione diverse. Riguarda anche giovani coppie con più figli, i cinquantenni che hanno perso il lavoro, i padri e le madri separati, anche e soprattutto al Nord. Secondo Save the Children, un milione di minori vive in condizioni precarie, al di sotto dei livelli minimi di assistenza e di educazione. I nostri poveri finiscono per essere, in non pochi casi, discriminati rispetto agli immigrati indigenti. Questi ultimi sono aiutati da una rete solidale di straordinaria generosità e sensibilità umana che non ha pari altrove. Molti nostri connazionali, invece, si vergognano della loro nuova condizione. Sentono su di sé un giudizio morale ingiusto e insopportabile. Stentano a chiedere aiuto, non si mettono in fila alle mense dei poveri. I tanti che hanno perso la casa e il lavoro scivolano drammaticamente nella condizione invisibile del disonore sociale. Evitano finché possono le strutture dell’accoglienza. Ed è difficile non solo dar loro una mano, ma rendersi persino conto dei bisogni reali.
Le misure transitorie finora varate per contrastare la povertà hanno incontrato non poche difficoltà di realizzazione, in particolare nel Mezzogiorno, sia per la scarsità di servizi sia per la quantità di dichiarazioni mendaci. Il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia) è concesso a cittadini italiani o comunitari o stranieri residenti da almeno due anni. Nel nucleo familiare è necessario che vi sia almeno un minore o un figlio disabile o una donna in stato di gravidanza accertata. L’Isee (l’Indicatore della situazione economica equivalente) non può essere superiore a 3 mila euro l’anno. Consiste in 80 euro a componente, per un massimo di 400 euro, con l’obbligo di seguire corsi di reinserimento. L’Asdi, l’Assegno di disoccupazione, è riservato invece a chi, dopo aver ricevuto ed esaurito il diritto ad un’indennità, non trova lavoro, non ha i requisiti per la pensione anticipata o di vecchiaia, e dichiara un Isee inferiore a 5 mila euro. L’Asdi è assegnato se si fa parte di un nucleo familiare con almeno un minore o un membro con più di 55 anni senza requisiti pensionistici. L’importo è del 75 per cento dell’ultima indennità di disoccupazione percepita, e modulato in base ai carichi familiari.
Quando verrà approvata definitivamente la legge delega sulla povertà al Senato, questi strumenti transitori saranno assorbiti dal Reddito di inclusione (Rei) calcolato nella differenza fra il reddito disponibile delle famiglie assistite e la soglia di povertà fissata dall’Istat. E, ovviamente, con l’obbligo di seguire corsi di reinserimento socio-lavorativo. Costerebbe 1,5 miliardi l’anno. «Ma anche così si raggiungerebbe solo un povero su tre — spiega l’esperto di politiche sociali Cristiano Gori, dell’Università di Trento — e l’Italia rimarrebbe ancora, insieme alla Grecia, il solo Paese in Europa a non avere una misura universale». L’Alleanza contro la povertà, che raggruppa 37 soggetti sociali e del volontariato, promossa da Gori, propone invece una misura universale a favore di tutti i residenti in condizione di indigenza assoluta per allineare il loro reddito alla soglia di povertà. L’ammontare medio mensile varierebbe, nella proposta dell’Alleanza, da 316 euro (nucleo con un componente) a 454 (quattro persone). Il costo a regime sarebbe molto elevato: 7 miliardi da raggiungere, però, in diversi anni. L’onere del finanziamento potrebbe essere alleviato, per i conti pubblici, ricorrendo alla solidarietà privata.
Occuparsi di più e meglio dei poveri che vivono nel nostro Paese, facendo anche un piccolo passo in più ogni anno e combattendo con severità gli abusi, non risponde solo a un dovere di misericordia civile, irrinunciabile in un Paese moderno, ma restituisce valore alla cittadinanza e rinsalda legami e rispetto delle regole. I poveri non sono una parte sociale. Non contano. Sono una minoranza invisibile che, in qualche caso, non vuol farsi nemmeno vedere. La ferita sociale interroga la coscienza di tutti.