Fonte: Corriere della Sera
di Giovanni Bianconi
Quando alla sbarra finiscono nomi altisonanti e/o esponenti di partito, o capita che i processi sfiorino o coinvolgano a qualunque titolo alte cariche istituzionali, bisognerebbe evitare ogni tipo di strumentalizzazione e speculazione. Sulla trattativa Stato-mafia è successo il contrario
La sentenza d’appello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha capovolto quella di primo grado: l’accusa ha perso, le difese hanno vinto. Aveva ragione chi ha sempre sostenuto non tanto che la trattativa non è reato, giacché questo non l’hanno mai affermato nemmeno i pubblici ministeri. Piuttosto ha prevalso l’opinione di chi riteneva che il processo costruito intorno all’ipotesi di una minaccia dei boss alle istituzioni agevolata e rafforzata da carabinieri e politici che avevano avviato o tentato un contatto con Cosa nostra, sia stato un errore. Perché non ha retto al giudizio d’appello. Tuttavia altri giudici nella stessa formazione — due togati e sei popolari — nel 2018 erano giunti alla conclusione opposta: il ricatto mafioso, proseguito con le stragi in continente dopo quelle di Palermo, trovò una sponda nel dialogo con i rappresentanti dello Stato.
Ora manca il vaglio della Cassazione, ma i verdetti contrastanti fanno parte della fisiologia del sistema giudiziario, secondo il quale l’ultimo giudizio è quello che conta. Il resto non può diventare di per sé motivo di scandalo. In ogni caso, a parte le considerazioni sugli episodi confermati ma valutati diversamente, la sentenza di ieri insegna una volta di più che i processi servono a stabilire se è stato commesso un reato, ed eventualmente da chi. Non ad altro. Certamente non a riscrivere la storia o a fornire interpretazioni socio-politiche di determinati fenomeni, come aveva ricordato il presidente della Corte d’assise d’appello aprendo il dibattimento. Anche se i fatti da valutare fanno parte della storia di un Paese, come per gli attentati del biennio 1992-1993 che hanno inciso profondamente sull’Italia di fine secolo scorso.
Questo comporta che anche quando alla sbarra finiscono nomi altisonanti e/o esponenti di partito, o capita che i processi sfiorino o coinvolgano a qualunque titolo alte cariche istituzionali, bisognerebbe evitare ogni tipo di strumentalizzazione e speculazione, oltre a conclusioni affrettate o interessate. Sulla trattativa Stato-mafia, purtroppo, è successo il contrario. Perché da un’ipotesi investigativa che peraltro riprendeva vecchie indagini archiviate, s’è arrivati a reinterpretare i moventi delle stragi, ad accusare i magistrati di fare politica attraverso inchieste e processi, o i politici di essere collusi con la mafia a prescindere dalle pronunce dei giudici. Che servono ad attribuire eventuali responsabilità penali, ma non esauriscono la ricostruzione di ciò che è avvenuto.