21 Febbraio 2025

Una agenda in cinque punti: tornare agli incentivi Industria 4.0; rilanciare il Pnrr; puntare sugli Istituti tecnici; intervenire sul prezzo dell’energia e sul credito

Tempo che ci si occupi di crescita. L’allarme degli imprenditori — che hanno alzato la voce chiedendo di riorientare le priorità del Paese a favore di aziende, famiglie, investimenti — è tardivo, ma finalmente è arrivato. Pensare che il rallentamento della nostra economia dipenda solo da ciò che sta accadendo in Germania potrebbe rivelarsi una pericolosa illusione.
La presidente del Consiglio da mesi propone il ritornello sul boom di occupazione, omettendo di ricordare che l’aumento dell’occupazione si accompagna a un processo di riallocazione del lavoro: meno industria, più servizi con minore produttività e minor valore aggiunto. Una riallocazione che spiega perché i salari italiani continuino a rimanere tanto più bassi che nel resto dell’Ue.
Nel 2022, nelle aziende manifatturiere con più di 10 addetti, quelle che dovrebbero pagare meglio, i salari medi lordi erano 38.000 euro l’anno in Italia, 44.000 in Francia, 48.000 in Svezia, 58.000 in Germania. Sarebbe utile imparare dall’esperienza di un Paese come la Corea del Sud, per alcuni aspetti simile all’Italia. Negli anni ’70, quando a Seoul si avviò il processo di industrializzazione, il governo mantenne alti i salari, in tal modo obbligando le imprese a spostarsi verso produzioni a maggior valore aggiunto. Fu una scelta contraria all’opinione comune secondo la quale l’industria cresce se il costo del lavoro rimane basso. Anche a quella scelta si deve la nascita, in Corea, di grandi imprese tecnologicamente avanzate, come Samsung, Hyundai, LG.
Una prima cosa che il governo potrebbe fare per fermare la caduta della produzione industriale è abbandonare gli incentivi agli investimenti previsti dalla Legge di bilancio del 2023 (cosiddetti Industria 5.0) e ripristinare le precedenti forme di sostegno agli investimenti (Industria 4.0). Il problema non sono le differenze fra le due norme, che ci sono ma sono trascurabili, bensì il cambiamento nelle procedure per accedere agli incentivi. Le aziende, che avevano imparato come accedere a Industria 4.0, sono rimaste spiazzate. Il risultato è che l’anno scorso, a fronte di 6,3 miliardi di incentivi disponibili, le aziende ne hanno utilizzati solo 100 milioni. Nel 2017 l’ammontare di investimenti agevolati fu di 7 miliardi circa in un solo anno. Bisogna tornare rapidamente alle vecchie procedure, cui le aziende si erano abituate.
La seconda cosa da fare urgentemente è rimettere in corsa il Pnrr. Dopo il rallentamento avvenuto nel 2023, quando cambiò il governo, il piano pare essersi di nuovo arenato, con il passaggio della responsabilità dall’ex-ministro Fitto al nuovo ministro Tommaso Foti. Il Pnrr comporta investimenti pari al 10 per cento del Pil su 5 anni, cioè 2 per cento del Pil all’anno. È pressoché impossibile che l’economia si fermi con una simile spinta. Fra due settimane il governo presenterà al Parlamento la relazione annuale sul Pnrr. Se, come pare, alcuni investimenti si fossero fermati è urgente riattivarli.
E ancora. Le imprese lamentano con sempre più forza la scarsa offerta di lavoro qualificato. C’entra la demografia, certo,c’entra però anche la formazione. In Germania circa un milione di ragazze e ragazzi, dopo la scuola, non si iscrive all’università: frequenta le Fachhochschulen, istituti con forte orientamento pratico. Copiando quel modello, in Italia nel 2010 abbiamo creato gli Its (Istituti tecnici superiori) per formare quadri intermedi specializzati. Dove funzionano, gli Its fanno la differenza: ad esempio al Guglielmo Marconi di Dalmine (Bg) è attribuito gran parte del merito per la sopravvivenza delle aziende tessili della Val Seriana. Finora però gli Its così sono rari: nel 2022-23, a fronte di circa 250.000 studenti che frequentano università telematiche, gli iscritti a corsi Its erano 16.000 in tutto. Le telematiche sono diventate un grande business: un fondo americano ha recentemente acquistato un gruppo di università italiane di questo tipo per 1,5 miliardi di euro. Ma, diversamente dagli Its, non c’è evidenza che producano i diplomati che servono alle imprese. Il governo dovrebbe resistere alla lobby delle telematiche e dedicarsi seriamente all’espansione degli Its.
Quarta cosa. L’energia è una componente crescente dei costi delle aziende, soprattutto dove, come in Italia, dipendiamo dal gas, il cui prezzo è balzato dopo l’invasione dell’Ucraina. Un meccanismo folle lega il prezzo di ogni fonte di energia, anche quella prodotta da impianti idroelettrici (il cui costo marginale è vicino a zero) al prezzo marginale del gas. Occorre cambiare rapidamente questo sistema che, oltre a tenere alti i prezzi dell’energia, produce rendite imbarazzanti. Per farlo, ovviamente, il governo deve avere la forza di scontrarsi con le aziende elettriche, Enel e altri produttori di rinnovabili. Si muove invece nella direzione opposta la recente decisione di allungare per 20 anni, senza gara, le concessioni non solo per le centrali idroelettriche ma anche per la distribuzione di elettricità, grazie a un emendamento dell’ultima ora alla Legge di bilancio. Con la beffa (Marco Leonardi sul Foglio è stato il solo a notarlo) che il contributo una tantum per l’allungamento delle concessioni non sarà a carico delle aziende elettriche, ma pagato dagli utenti in bolletta, come se il conto non fosse già abbastanza salato. In Italia abbiamo 100 imprese di distribuzione che servono meno di 25.000 clienti ciascuna (A2A ne serve quasi 2 milioni, Enel 32). Per ridurre i costi dovrebbero essere aggregate, tuttavia il rinnovo — gratuito — delle concessioni consente di rimandare il problema
Un ultimo (non ultimo) punto-chiave. Le banche annunciano profitti straordinari, le loro azioni in Borsa volano e vengono usate per acquistare altre banche. Le imprese lamentano però che il credito arriva col contagocce e a tassi troppo alti. Perché succede? Che cosa sta accadendo? Fra le banche c’è poca concorrenza, e questo spiega gli alti profitti. Ma, nonostante i tassi elevati che applicano ai prestiti, le banche continuano a guadagnare di più vendendo polizze assicurative e altri servizi. Anziché facendo, appunto, prestiti. Questi sono rischiosi, obbligano quindi la banca a impegnare il proprio capitale. Non è un caso che i prestiti che continuano a essere erogati sono soprattutto quelli garantiti da Sace e Mediocredito Centrale, cioè dallo Stato. Nel frattempo, una polizza o un prodotto finanziario produce commissioni sicure e non comporta alcun rischio.
Non è solo un problema italiano. Negli Stati Uniti le banche tradizionali si sono trasformate in reti per la distribuzione di prodotti finanziari. Al finanziamento delle imprese pensa il mercato tramite emissioni di titoli. Nulla di simile, o molto poco, esiste in Italia, ma, occorre dire, neppure in Germania o in Francia. Nel nostro caso anche per un motivo in più: la dimensione troppo piccola della maggior parte delle imprese italiane, che non hanno la taglia per emettere titoli.
Le battaglie per il controllo di alcune banche — da Mediobanca a Banco BPM, alla Popolare di Sondrio — possono avere due spiegazioni. O interessano perché la redditività di una rete di vendita dipende da quanto essa è estesa: aggiungere una provincia alla rete costa poco mentre il beneficio è elevato. Se questo è l’obiettivo delle operazioni che sono state annunciate nelle ultime settimane,ok, hanno certamente senso. Se invece le banche si aggregano perché i loro azionisti pensano di trovarsi ancora nel piccolo mondo antico, nel quale controllare una banca significava accedere al potere economico e spesso anche politico, stanno gettando soldi al vento.
Il governo appoggia alcune delle fusioni bancarie che sono state annunciate. Se fosse interessato agli investimenti, e quindi fosse preoccupato dall’apparente scarsità di prestiti, dovrebbe chiedersi perché le imprese italiane fanno fatica a finanziarsi sul mercato. E se la risposta fosse che la taglia delle nostre imprese è troppo piccola, allora lo stesso governo dovrebbe rimuovere gli incentivi che le inducono a restare piccole, in primis una flat tax che ostacola la crescita del fatturato oltre una determinata soglia. Temo, però, che l’interesse governativo a queste operazioni derivi dall’illusione che controllare una banca possa ancora produrre benefici politici. È un’illusione che persiste, con i disastri che abbiamo visto.

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