Fonte: Corriere della Sera
di Francesco Verderami
È arrivato il momento di verificare se i vice premier hanno un’idea, un progetto per il Paese, che vada oltre gli slogan
Si conclude un’estenuante stagione di campagna elettorale che per mesi ha stressato il sistema politico e l’opinione pubblica. Un senso di vuoto e stordimento accompagna la chiusura delle urne: l’alta percentuale di astensionismo ai ballottaggi conferma il trend delle Europee e testimonia il distacco dei cittadini, la perdita d’interesse persino per l’amministrazione dei propri comuni. È l’ennesimo segnale d’allarme che i leader di tutti i partiti continueranno colpevolmente a ignorare, come fosse un dato ininfluente rispetto al risultato. Dai primi numeri dello spoglio si intuisce che nei ventisei capoluoghi chiamati al voto — e in larga misura governati dal centrosinistra — il Pd riesce a limitare i danni, come può fare una forza convalescente che vive una crisi d’identità. E che (anche) per questo non era attrezzata a fronteggiare l’avanzata del centrodestra a trazione leghista, uscito largamente vincente dalla sfida, e che — trainato da Salvini — si è mostrato capace di penetrare anche nelle «zone rosse» del Paese. I Cinquestelle si confermano invece in grave difficoltà: è vero che i grillini partivano svantaggiati — scontando l’anomalia di chi non contempla alleanze — ma è altrettanto vero che hanno perso Livorno e Avellino, dove cinque anni fa erano comunque riusciti a vincere da soli. La dimensione nazionale del tracollo si ripropone così a livello locale, e amplifica la crisi di un movimento anti-sistema che viene bocciato all’esame di governo.
Chiusa la parentesi delle Amministrative, che confermano la nuova geografia emersa alle Europee, resta da capire se in Italia c’è vita oltre le urne. E anzitutto se c’è ancora un esecutivo in grado di affrontare i problemi che avrà pure ereditato ma che ha anche aggravato. «Governare a vista» è stato il benefit di cui finora hanno goduto Di Maio e Salvini, per assenza di un’alternativa e per la capacità mediatica di scaricare sul passato ogni responsabilità. Tuttavia dopo un anno trascorso a Palazzo Chigi, è arrivato il momento di verificare se i vicepremier hanno un’idea, un progetto per il Paese, che vada oltre gli slogan e la logica del «giorno dopo giorno».
La gestione dei conti pubblici e le relazioni con i partner dell’Unione sono prove ineludibili che richiederebbero un forte senso di responsabilità. Invece, man mano che i due appuntamenti si avvicinano, nei due leader si fa sempre più forte la tentazione di scartare, di liberarsi dai vincoli e dagli impegni con il solito approccio populista: fuori dal governo, Salvini alza sempre di più il tiro sull’Europa dei «tecnocrati»; dentro il governo, Di Maio chiede al «tecnico» Tria di «trovare i soldi» che abbisognano. Le dinamiche somigliano pericolosamente alla prova di forza tentata con Bruxelles nell’autunno scorso, all’epoca della precedente Finanziaria.
Allora finì male, ma poteva andare peggio. Ora il peggio è davanti, e per quanto possa apparire paradossale la procedura d’infrazione per eccesso di debito è un «alert» meno grave del comunicato con cui Moody’s segnala ai mercati lo stato preoccupante dei conti pubblici italiani da tenere sotto osservazione. Ecco il primo nodo che Di Maio e Salvini dovranno sciogliere, sapendo che nel sistema globale le dinamiche economiche non sono più sotto il controllo dei governi nazionali, e che il sovranismo non può risolvere il problema.
Chiuse le urne, l’auspicio è che le parole d’ordine vengano sostituite da ragionamenti responsabili. Finora non è stato così: scomparsa la flat tax, il ministro dell’Interno si è proposto con i mini-bot, con una visione cioè autarchica che non tiene conto dei rischi a cui espone il sistema economico nazionale. L’idea di spezzare le catene dell’Italia è un modo per incatenarla, è un’operazione che ha finito per spaccare persino il governo, visto che il premier ha preso pubblicamente le distanze e minaccia le dimissioni se non potesse gestire la trattativa con Bruxelles dentro i canoni tradizionali. L’interrogativo allora è se Salvini non mediti proprio la rottura per spezzare le catene anche nell’esecutivo e per porre fine a quello che considera un improprio tutoraggio dei tecnici.
In tal caso c’è un secondo nodo che il leader della Lega e il capo del Movimento dovranno sciogliere: la prosecuzione dell’esperienza comune a palazzo Chigi imporrebbe infatti di trasformare il «contratto» in una vera e propria alleanza strategica, che dovrebbe svilupparsi per l’intera legislatura. Ma tanto per il Carroccio quanto per M5S ci sarebbe una questione identitaria da risolvere, visto che i rispettivi partiti — al loro interno — sono attraversati da pulsioni di rigetto. Emergenza economica e questioni politiche si intrecciano, e spetta ai vice premier trovare un compromesso o spezzare i nodi che tengono fermo un Paese già fermo. Una cosa è certa, non possono continuare a «governare a vista», non possono immaginare di prolungare la campagna elettorale oltre le elezioni. La vittoria alle Europee, seguita ieri dalla vittoria alle Amministrative, carica Salvini di una responsabilità: non vengono prima gli italiani?