19 Settembre 2024

Una legge-quadro che ha già avuto tutti i via libera, ma ancora da riempire di contenuti. Con tanti dubbi

Una spessa nuvola di retropensieri incombe sull’autonomia differenziata. Ogni protagonista (o antagonista) di questa riforma, in teoria delicatissima per i nostri assetti istituzionali, cela qualche ambiguità, qualche responsabilità da far dimenticare o qualche carta nascosta nella manica. Nessuno racconta agli italiani il nuovo, futuribile assetto turbo-federalista semplicemente per quello che potrà o potrebbe essere: una cesura nella nostra storia repubblicana che, piaccia o meno, ha più d’un progenitore.
Non si tratta solo di ventitré materie, talune davvero vitali per lo Stato, che ogni Regione potrà o potrebbe gestire a piacimento fatto salvo il flebile e per adesso indeterminato aggancio unitario dei Lep, i mitologici livelli essenziali di prestazione che andrebbero, in teoria, garantiti a ogni cittadino da Bolzano a Lampedusa.
Siamo al culmine di un percorso intrapreso poco meno di mezzo secolo fa dai secessionisti veneti e poi da Umberto Bossi. La Lega, pur cambiando tante volte pelle, ha avuto la tenacia di coltivare in cuor suo una segreta scintilla antiunitaria, sfruttando infine l’alleanza di centrodestra al governo dal 2022 per farne un potente falò. Col paradosso che il viatico al progetto del ministro Calderoli (sbeffeggiato anni fa quale padre del Porcellum e ora onorato come fine architetto della nuova entità multiregionale) viene da una maggioranza guidata da un partito che porta nel nome l’inno nazionale e nel simbolo una fiamma tricolore.
E qui la faccenda s’ingarbuglia, fra timori dissimulati e inconfessabili speranze. Al netto delle dichiarazioni in favor di telecamera, da Fratelli d’Italia trapela un sornione scetticismo. Siamo davanti a una legge-quadro, da poco passata al vaglio di non manifesta incostituzionalità del Quirinale, sì, ma tutta da riempire di contenuti: campa cavallo. In effetti il governo ha 24 mesi per definire i famosi Lep, che andrebbero poi finanziati (a saldi di bilancio invariati!). E comunque la trattativa con le Regioni che chiederanno la devoluzione sarà in capo alla premier, certo non sospettabile di simpatie secessioniste. Però delle due l’una: o è così, e allora il giubilo dei leghisti cade a metà tra un tragico equivoco e una finzione volta a non disperdere quel po’ di elettorato ancora fedele nei territori del Nord-Est; o così non è, o almeno non completamente (ci sono nove materie non legate ai Lep ma ugualmente delicate e subito trasferibili, come ad esempio la protezione civile o il commercio con l’estero, tosto richieste dal governatore veneto Zaia con nuovo strascico di polemiche): e allora il socio principale della maggioranza sta forse concedendo al suo junior partner più di quanto la stabilità del Paese e della sua economia possa sopportare.
Simili dubbi diventano assai più espliciti nella risorta Forza Italia, molto radicata al Sud. Con l’insofferenza di governatori di peso come il calabrese Occhiuto e il lucano Bardi a malapena trattenuta e tradotta dal partito in quattro «ordini del giorno», cogenti poco più di un’ordinazione alla buvette, e un Osservatorio sulle Regioni che già dalla denominazione denota una certa tendenza contemplativa.
L’opposizione, del resto, invoca un referendum abrogativo (col quorum, difficilissimo dunque da portare a dama) gridando alla patria tradita, ma ha non piccoli scheletri nell’armadio. La riforma Calderoli è null’altro che l’applicazione (peraltro tardiva) dell’articolo 116 della Costituzione riformata nel 2001 dal centrosinistra a guida Pds: un’iniziativa pasticciata, dettata dalla speranza (vana) di fermare l’avanzata leghista al Nord. Non solo: fra le Regioni che nel 2018 avevano attivato col governo Gentiloni (di centrosinistra) le prime intese prodromiche all’autonomia c’era, accanto a Lombardia e Veneto, l’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini, presidente del Pd e ora eurodeputato. Infine, i Cinque Stelle: adesso sventolano il Tricolore (hanno provato ad avvolgervi pure un orripilato Calderoli); ma Conte aveva l’autonomia differenziata in programma sia alleandosi con la Lega per il suo primo governo sia col Pd per il secondo.
Dunque, nulla è come appare. Appena il 38% dei lombardi andò a votare al referendum consultivo che si tenne nel 2017 per sondarne la propensione all’autonomia. E forse la riforma cristallizza Regioni che dal punto di vista socioeconomico non sono più le stesse, la modernità ha mischiato carte e bisogni. Come osserva Stefano Cingolani sul Foglio, un’unica area urbana accompagna ad esempio la costa adriatica dalla Puglia all’Emilia-Romagna: stili di vita e tempi di lavoro sono indistinguibili. Roma e Milano c’entrano poco con Lazio e Lombardia. Non si tratta di virare su un centralismo che non è neppure nella Carta, ma di guardare ai territori senza lenti ideologiche, garantendo servizi non frammentati. Restano incognite sulla tenuta fiscale e rischi seri come quello evidenziato dal Country report 2023 della Commissione europea secondo cui il pacchetto autonomista metterebbe a repentaglio la capacità dell’esecutivo di tenere sotto controllo la spesa pubblica, con conseguenze nefaste sulla sostenibilità della nostra finanza. Galleggia sullo sfondo, come paventato da Stefano Fassina in un suo recente saggio, il dubbio che l’autonomia, indebolendo il sistema Paese, finisca per danneggiare anche i cittadini del Nord. Epopea, calamità o giro di giostra, l’Europa ci guarda, forse un po’ attonita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *