EDITORIALE
Fonte: Corriere della Sera di Angelo PanebiancoAlmeno ci prova. Forse alla fine l’impresa si rivelerà più grande di lui ma, per lo meno, Matteo Renzi sta forzando, spingendolo a cambiare, un sistema politico-istituzionale, i cui riti, le cui pratiche, le cui procedure, sono al servizio dell’immobilismo, della mediazione senza decisione.
Ottenendo per giunta, lui indiscutibilmente uomo di sinistra, di essere trattato come un politico di destra da quella parte del suo partito e del suo mondo abituati a credere che la decisione non abbia nulla a che fare con la democrazia, abituati a credere che la cosiddetta «dialettica democratica» sia più o meno raffigurabile così: un gruppo di persone che si agitano tanto, stando, ciascuna, rigorosamente ferma sulla stessa mattonella. Il massimo di movimento apparente unito al massimo di immobilismo sostanziale.
Prendiamo la riforma della pubblica amministrazione. È un provvedimento complicato, ci sono dentro alcune cose giuste e altre, che avrebbero dovuto esserci, non ci sono (ad esempio non c’è quasi nulla che spinga alla responsabilità i dirigenti e all’efficienza gli impiegati). Però, almeno, è una decisione, anche se la legge delega fa presagire tempi più lunghi.
Renzi è schiacciato fra due esigenze, è in equilibrio fra forze che lo spingono in direzioni opposte. Da un lato, ha fretta, moltissima fretta. I messaggi che manda al Paese sono sempre dello stesso tenore: «Devo fare subito, prima possibile, quello che devo fare, quello che il Paese si attende. Se non lo faccio subito non riuscirò a farlo mai più». Dall’altro lato, Renzi deve misurarsi con problemi di grandissima complessità, sia tecnica che politica, e la fretta può facilmente portare a decisioni sbagliate: ad esempio, la riforma del Senato avrebbe avuto fin dall’inizio molte più chance , se il progetto presentato dal governo non fosse stato così fragile, così raffazzonato. Tra la necessità di fare in fretta e la necessità di approfondire, la porta è molto stretta e sulla capacità di passarci attraverso Renzi gioca la sua intera partita politica.
Si tratti di politica delle nomine, di rifiuto dei riti concertativi, di indisponibilità a farsi incastrare o bloccare dai giochi degli oppositori interni di partito («il tempo delle mediazioni è finito»), quella di Renzi è una politica della decisione che si trova a fronteggiare sia istituti sia idee, visioni della politica, costruite su opposti principi. Costruite, più precisamente, su un insieme di (aberranti) sillogismi: «La decisione è di destra. La destra è fascismo, l’opposto della democrazia. La democrazia, quindi, è non-decisione, è mediazione senza decisione». Diversi Soloni, difensori dell’intoccabilità della Costituzione, disinteressati o ignari di come funzionano le buone democrazie, lo hanno eletto a dogma e il dogma, col tempo, si è trasformato per tanta gente in luogo comune: provare a fare dell’Italia una democrazia che decide significa coltivare disegni autoritari, significa avere nostalgie di fascismo. È su questo scoglio, su questa barriera mentale che si è sempre infranto, fino ad oggi, ogni serio tentativo di riforma istituzionale. Ed è anche il paradosso del politico Renzi.
Egli è indubbiamente un uomo di sinistra. Lo è sulle questioni che, chiacchiere a parte, dividono sul serio la sinistra e la destra: lo è sulla questione della redistribuzione dalla classe media ai ceti meno abbienti (gli ottanta euro) come lo è sul tema dell’immigrazione. Un politico di destra avrebbe fatto l’opposto di quello che egli ha fatto in entrambi i casi. Ma poiché Renzi è anche un decisionista, questa sua qualità di uomo di sinistra non è riconosciuta da chi assurdamente assimila destra e decisione. Renzi ha una occasione storica: può cambiare in un colpo solo i tratti di un sistema politico e quelli di una cultura legnosa, logora,