La globalizzazione ha cicli: attualmente bisogna parlare più di ri-globalizzazione che di de-globalizzazione
Le migliaia di organizzazioni internazionali, nonostante i grandi proclami di pace, non sono riuscite ad assicurarla. Il Segretario generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (il cui costo complessivo annuo è stimato intorno a 50 miliardi di dollari) ha scritto sul «Corriere della Sera» del 10 febbraio che «la governance globale sta fallendo nel momento in cui il mondo dovrebbe essere unito per risolvere i problemi globali».
Si riaffacciano tendenze autoritarie e reazioni nazionalistiche, mentre si registra un declino della democrazia, della libertà e dei valori propri dell’Occidente. La rete dei poteri sovranazionali costruita dopo la Seconda guerra mondiale non riesce a tenere sotto controllo gli Stati.
Sul lato dell’economia, si lamenta la fine di tre decadi di globalizzazione. Prima la pandemia, poi la guerra, costringono a modificare le catene di approvvigionamento (le «supply chains»).
La produzione ridiventa nazionale, si ricerca l’autosufficienza, ricompare il protezionismo, le imprese cercano di rilocalizzarsi, riportando a casa quelle attività che erano state delocalizzate in Paesi asiatici o dell’Est Europa («reshoring»). A questo controesodo fa riscontro il nazionalismo economico. È stata una grande illusione che l’interdipendenza economica avrebbe allontanato i conflitti bellici.
Queste conclusioni sono solo parzialmente vere e molte sono frutto di un difetto di ottica.
Innanzitutto, la globalizzazione è un fenomeno molto più complesso: non riguarda soltanto la costituzione di ordini giuridici globali e l’apertura internazionale delle economie. Il filosofo tedesco Jürgen Habermas l’ha così sintetizzato, nel 2006: «Per globalizzazione si intendono i processi cumulativi di espansione mondiale del commercio e della produzione, dei mercati delle merci e finanziari, della moda, dei media e dei programmi per computer, delle reti di notizie e di comunicazione, dei sistemi di trasporto e dei flussi migratori, dei rischi generati da tecnologie usate su larga scala, da danni ambientali ed epidemie, nonché da criminalità organizzata e terrorismo».
La globalizzazione ha registrato, negli ultimi trent’anni, grandi successi, a cui nessuno vuole rinunciare. Due in particolare: ha ridotto le diseguaglianze tra le varie parti del mondo e allungato la durata della vita nei Paesi in via di sviluppo.
Inoltre la globalizzazione, come osservano gli storici, ha cicli. Sta ora cambiando: come ha osservato Sergio Fabbrini, bisogna parlare di ri-globalizzazione, più che di de-globalizzazione. La pandemia ha creato una «comunanza globale» mai vista prima, così come l’approvvigionamento di vaccini è stato oggetto di accordi sovranazionali, che però hanno creato nuove fratture, a danno dalla parte più povera del mondo.
In terzo luogo, le crisi sono fattori di sviluppo delle solidarietà sovranazionali, come aveva osservato nel 1974 l’allora ministro tedesco delle Finanze Helmut Schmidt, dicendo che «l’Europa vive di crisi». Infatti, la crisi finanziaria del primo decennio del nostro secolo ha portato a un rafforzamento del G20; quella del debito all’Unione bancaria europea; quella prodotta dalla pandemia a un rafforzamento della capacità di spesa dell’Unione europea; l’aggressione della Russia all’Ucraina sta rafforzando l’Unione europea e producendo alleanze inedite: gli Stati sembrano fare a gara nella solidarietà verso gli aggrediti.
A dispetto delle previsioni, nonostante pandemia e guerra nel teatro europeo, la quota delle esportazioni sulla produzione nazionale cresce, gli investimenti esteri diretti non finanziari aumentano, le imprese continuano a finanziarsi sui mercati internazionali dei capitali e le migrazioni non sono terminate.
Dunque, quelli che negli anni 40 e negli anni 50 del secolo scorso sognavano un mondo meno dominato dal nazionalismo e più cosmopolitico non si sono illusi. Mi riferisco, ad esempio, ad un autorevole collaboratore del «Corriere della Sera», il germanista e romanziere Giuseppe Antonio Borgese, di cui ricorre quest’anno il settantesimo anniversario della morte e il centoquarantesimo della nascita. Borgese fu autore di un libro, pubblicato nel 1953, un anno dopo la sua morte, intitolato «Fondazioni di una Repubblica mondiale», diretto ad illustrare quel «Disegno preliminare di una costituzione mondiale» a cui lui ed altri grandi intellettuali avevano lavorato.
Il quadro non sarebbe completo se non ricordassi che le due ultime crisi, prodotte dalla pandemia e dalla guerra nel teatro europeo, hanno messo in luce anche la pochezza di alcune dirigenze nazionali e la debolezza di molte istituzioni, a partire dall’Organizzazione delle Nazioni unite e dal suo organo centrale, il Consiglio di sicurezza, per il quale un autorevole economista, Jeffrey Sacks, ha proposto una radicale riforma.
Il presidente della Federazione russa, nel 2015, proprio all’Assemblea delle Nazioni unite, nei giorni in cui si festeggiavano i suoi settant’anni, fece un discorso contro «l’esportazione di rivoluzioni democratiche». Se c’è una cosa che deve preoccuparci per il futuro, è proprio la frattura che divide i Paesi democratici da quelli non democratici. Un vicino democratico è più probabilmente pacifico di quanto lo sia un vicino non democratico. Viceversa, alle autocrazie non fa piacere avere vicini democratici. Il problema oggi non è quanti Paesi sono democratici, ma quanta parte della popolazione mondiale vive in Stati non democratici: la decisione dell’Assemblea delle Nazioni unite che ha condannato l’aggressione russa è stata approvata con 141 voti a favore su 193, 5 contrari e 35 astenuti, ma gli Stati contrari e astenuti comprendono più della metà degli abitanti del mondo.