Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Angela non sa urlare
Chissà che fine farebbe la signora Merkel — la leader più longeva d’Europa, in corsa per un quarto mandato record — se si candidasse in Italia. Tutto ciò che la fa rifulgere in Germania, al punto da lasciarla senza avversari, qui la condannerebbe. La sua oratoria, per esempio. Piatta e noiosa, non reggerebbe il confronto con il tono maschio e aggressivo dei nostri urlatori. La sua propensione al compromesso, figlia della storia di un Paese che ha imparato a diffidare del decisionismo, verrebbe presa per indecisionismo, in un mondo politico che è tutto una esibizione di muscoli. Pensate poi che la signora da dodici anni guida governi di coalizione e con tutta probabilità anche il prossimo lo sarà, una formula da noi deprecata in quanto causa di sicura instabilità politica. Né diventerà cancelliera la sera stessa delle prossime elezioni, poverella, non avendo adottato l’Italicum come sistema di voto; ma solo dopo mesi di trattative per la stesura di un accordo di governo, che stavolta sarà anche più difficile e complesso, per la debolezza dei potenziali partner e perché in Parlamento potrebbe apparire per la prima volta una forte destra anti-sistema.
Una sola qualità accomuna Angela, almeno apparentemente, ai politici italiani: sa rubare agli avversari le loro parole d’ordine. Per esempio ha chiuso le centrali nucleari dopo Fukushima lasciando i Verdi a secco; ha varato il salario minimo scippandolo ai socialdemocratici; e ha persino fatto passare il matrimonio gay votando contro, ma lasciando libertà ai suoi parlamentari.
Si potrebbe dire che anche noi, in questo sport dell’ambiguità programmatica, non siamo secondi a nessuno. Però la differenza è che mentre l’abilità della Merkel sta nel non dire ciò che poi fa, in Italia di solito i nostri leader non fanno ciò che dicono. E ammetterete che è una grossa differenza. Prendiamo il caso dei vitalizi. I due maggiori partiti, Pd e Cinquestelle, dichiarano di averli così in odio da volerli abolire addirittura retroattivamente. Ma poi la legge arriva al Senato e non succede più nulla. Il risultato è anche peggiore che se non ne avessero mai parlato. Perché così hanno detto a milioni di italiani che la pensione dei parlamentari è una vergogna; ma se lo è, la mancata rimozione è un ottimo modo per rafforzare quei sentimenti antipolitici e antiparlamentari che si presumeva di accarezzare. Oppure prendiamo lo ius soli. Renzi ha sostenuto a lungo che si trattava di una misura di civiltà, e poi all’improvviso il Pd ha concluso che in Parlamento non c’erano i numeri per una battaglia di civiltà, rinviandola a giorni migliori. Allo stesso tempo il leader di quel partito ha aggiunto che i migranti bisogna aiutarli a casa loro (copyright Salvini), rendendo difficile capire perché mai allora bisogna impegnarsi per la cittadinanza italiana al più presto possibile. Non è una storia iniziata oggi. Ci sono grandi riforme, anche giuste, che negli anni hanno perso ogni credibilità proprio perché sono state sbandierate e poi lasciate morire senza un gemito. Vi ricordate la proposta delle tre aliquote fiscali di Berlusconi? Restò inattuata. Oggi lo stesso Berlusconi annuncia con Salvini una sola aliquota, la flat tax. Ci si può credere? Non c’è peggior nemico del disincanto in una democrazia. È forse il danno maggiore che le si possa arrecare. Assuefarsi a una politica che non fa mai quello che dice è come cumulare ogni giorno piccole dosi di veleno. Sarà per questo che la Merkel non ha mai avuto tanti estimatori tra i politici italiani, pronti ad entusiasmarsi e a paragonarsi a tutti, da Thatcher a Blair, da Obama a Hollande, da Cameron a Macron, ma mai alla signora tedesca. Forse anche perché sono tutti uomini.