Fonte: Corriere della Sera
di Aldo Cazzullo
Le forze europeiste sono ancora in netta maggioranza nel nuovo Parlamento, tuttavia si vanno riaggregando aree politicamente disomogenee
L’alleanza tra popolari e populisti non è possibile e neanche necessaria. Se i sovranisti volevano capovolgere l’Europa, dovranno attendere almeno altri cinque anni. I partiti di Le Pen e di Salvini sono primi in Francia e in Italia; ma le forze europeiste sono in netta maggioranza anche nel nuovo Parlamento. Non per questo si può dire che nulla sia accaduto. Il voto di ieri chiude il quindicennio in cui l’Europa è stata di fatto governata da Angela Merkel. Questo non significa che la Cancelliera ne esca sconfitta e abbiano vinto i suoi nemici. Significa che una stagione si è conclusa, e ora tutti avanziamo in una terra incognita.
La Merkel ha avuto un merito e un demerito storici, ed entrambi hanno segnato queste elezioni, forse le più importanti di sempre, come dimostra la crescita della partecipazione. Il merito: erigere un argine contro la destra antieuropea e neonazionalista, anche all’interno del suo Paese e del suo stesso partito. Nell’unica nazione dove è stata sperimentata, l’Austria, l’alleanza tra popolari e populisti è stata travolta da uno scandalo che ha rivelato la povertà culturale e l’abiezione morale di personaggi pronti a speculare sulle paure legittime dei cittadini per accumulare potere e denaro.
Ma la Merkel ha anche un limite da cui non si è mai emendata: aver imposto — per ragioni di politica interna, culturali prima che economiche — un’austerity che ha devastato i sistemi produttivi e la coesione sociale dei Paesi più deboli, compreso il nostro. A questo si aggiunge l’impatto sulla sicurezza e sul lavoro dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente. Si spiega anche così l’onda populista che spinge Marine Le Pen a scavalcare Emmanuel Macron, Nigel Farage a umiliare i frastornati conservatori, Matteo Salvini fare un balzo in avanti. E nessuno di loro è amico della Cancelliera.
All’apparenza, quando le acque dello tsunami si ritrarranno, non avranno del tutto sconvolto il paesaggio politico dell’Europa e dei grandi Paesi che la animano. A Bruxelles, l’asse popolari-socialisti (non più autosufficiente) sarà allargato ai verdi, più forti ancora del previsto, e ai liberali, compreso Macron. I moderati sono in difficoltà, e la sinistra tradizionale esce a pezzi: socialdemocratici al minimo storico in Germania, socialisti quasi scomparsi in Francia. A Berlino quella che nel 1966 fu chiamata Grande Coalizione, perché arrivava all’86,9% dei voti, oggi è sotto il 44. A Parigi il Ps e i neogollisti, partiti-cardine della Quinta Repubblica, non arrivano insieme al 15%. Ma i populisti non sono alle soglie del potere. In Germania non si vedono vere alternative ai cristianodemocratici, sia pure per la prima volta sotto il 30%. In Francia, se tra due settimane ci fosse il ballottaggio per le presidenziali, Macron batterebbe di nuovo agevolmente Marine Le Pen. A Londra i conservatori tenteranno di accelerare la Brexit ed evitare le elezioni anticipate; e quando verrà il momento per Farage non sarà così facile.
Questo non significa che nulla sia cambiato. Il sogno della Merkel — un’Europa unita attorno al Paese economicamente e geograficamente centrale, il suo — è oggi letteralmente a pezzi. Perché l’Europa si va riaggregando in aree politicamente disomogenee. La Merkel si è molto spesa per sostenere il popolare Mariano Rajoy, anche salvando le banche spagnole; e ora la Penisola iberica rappresenta un’eccezione rossa o almeno rosa, l’unica zona del continente dove la sinistra si conferma capace di governare da sola. La Merkel ha pensato l’Est europeo come un’area di espansione naturale della Germania, mercato per le sue aziende e baluardo anti Putin, e si ritrova con una serie di regimi rozzamente nazionalisti e illiberali, dall’Ungheria di Viktor Orbán alla Polonia di Jaroslaw Kaczynski, nonostante la presa di distanza del padre della libertà polacca, Lech Walesa, acclamato a Monaco sul palco dove la Cancelliera ha chiuso la sua ultima campagna elettorale. E la Merkel non si augurava certo l’addio di Londra, che ora ritrova la propria vocazione insulare e atlantica, tanto più se al posto della May dovesse insediarsi l’istrione Boris Johnson, alleato naturale di Donald Trump.
Ora per l’Europa si apre una nuova stagione irta di incognite. L’apertura a verdi e liberali non tiene conto dell’oggettivo spostamento a destra dell’elettorato. L’antidoto all’austerity tedesca rappresentato dalla Banca centrale europea di Mario Draghi durerà ancora pochi mesi. I giorni della stessa Merkel sono numerati. Una cosa sola è certa: siccome l’alleanza popolari-populisti per ora è impossibile, l’Italia di Salvini non troverà un’Europa accondiscendente. Bruxelles e Roma possono scegliere la via del dialogo, che può ancora salvare ogni cosa; o quella della rottura, che sarebbe un disastro per tutti.