19 Settembre 2024

Fonte: Huffington Post

Questa volta non hanno funzionato le due parole magiche del lessico politico francese: pédagogie e évangelisation. Diciotto mesi di “pedagogia” cioè di confronto e concertazione con le parti sociali e in ogni angolo del Paese condotto con autentica sapienza democristiana dall’Alto commissario per la riforma delle pensioni (l’ex ministro chiracchiano Jean-Paul Delevoye, fedelissimo di Macron, il vero ministro del lavoro sul dossier esplosivo della previdenza) non sono serviti a nulla.
Così come non ha funzionato il tentativo di evangelizzare, cioè di convertire pezzi della società francese – a cominciare dalle organizzazioni padronali e dalle centrali sindacali moderate come la Cfdt, l’equivalente della Cisl che ha superato da tempo la storica Cgt – al progetto del presidente che sulla riforma delle pensioni – un sistema come non ne esistono più in Europa, tutto retributivo, età pensionabile a 62 anni e trattamenti generosissimi soprattutto nel settore pubblico allargato dove sopravvivono 42 regimi speciali – pensava di giocarsi la partita del cambiamento nella seconda parte del quinquennato dopo lo scossone dei Gilet gialli e il Grand Débat come risposta.
Invece niente, Macron non ha convinto e non ha convertito nessuno (o ben pochi) e ora, all’Eliseo e a Matignon, sono tutti terrorizzati per quel che potrebbe succedere il 5 dicembre prossimo, il giovedì nero in cui tutti i sindacati (tranne la moderata Cfdt che aspetta di vedere che cosa farà il governo) hanno aderito allo sciopero a oltranza del trasporto pubblico, metropolitana-bus-treni regionali, cioè proprio quelle aziende pubbliche dove ancora sopravvivono i famosi regimi speciali per cui un macchinista del metrò parigino (sono 31 mila su un organico di 45 mila) può andare in pensione a 52 anni con un assegno medio, calcolato sugli ultimi sei mesi di stipendio, di circa 3.700 euro come ha calcolato la Corte dei Conti (gli altri, gli operai e gli impiegati, rispettivamente a 57 e a 60 anni e sempre con assegni generosi).
A leggere queste cifre, forse ha ragione Macron quando sostiene che si tratta di privilegi del secolo scorso. E hanno ragione anche la ministra alla Solidarietà sociale, Agnès Buzyn, quando accusa i sindacati del settore pubblico di essere corporativi e la portavoce del governo, Sibeth Ndiaye, quando ricorda al segretario generale della Cgt, il comunista Philippe Martinez, di aver dimenticato che cos’è oggi la solidarietà tra lavoratori e tra generazioni.
Eppure lo sciopero del 5 dicembre – convocato quel giorno per ricordare la spallata che fece cadere nel 1995 il governo Juppé che aveva provato, anch’esso, a riformare le pensioni – rischia di essere un successo per la semplice ragione che Macron non ha saputo parlare con chiarezza ai francesi, non ha saputo fare né pedagogia né evangelizzazione.
Creando, anzi, confusione tra allungamento dell’età pensionabile (oggi a 62 anni, a 64 dopo la riforma) e sistema universale a punti che vale per tutti, pubblici e privati, e garantisce la sua vecchia promessa elettorale: per ogni euro di contributi versati ci sarà lo stesso livello di pensione.
Funziona, a grandi linee, così: dieci euro di contributi versati (in percentuale il 28% dello stipendio, il 60% a carico del datore di lavoro e il 40% a carico del lavoratore) permettono di acquistare un punto. A fine carriera i punti cumulati, con un calcolo attuariale difficilmente sintetizzabile in un post, determinano l’ammontare dell’assegno.
Per il 2025, anno uno della riforma, il valore del punto è stato già fissato in 0,55 euro (quindi 100 euro di contributi genereranno 5,50 euro di pensione), ma nel prosieguo il calcolo terrà conto di tutte le variabili economiche (inflazione, tasso di crescita, pil, etc.) e demografiche intervenute nel frattempo.
Ma è proprio questo che fa paura: l’incertezza. Il Csr, Comité de suivi de retraites, un’agenzia pubblica insediata da Hollande per monitorare i conti della previdenza, ha già pubblicato un grafico da cui risulta che solo i primi cinque decili dei francesi interessati avranno da guadagnare (poco) dalla riforma mentre gli ultimi cinque decili (quelli dei lavoratori con redditi medio-alti) saranno in perdita secca.
E questo fa dire – con ironia – a un politico che ne capisce, Eric Woerth, repubblicano, ex ministro del Bilancio con Fillon (2009) e ora presidente della Commissione Finanze del Senato, che “più che di un sistema a punti, si tratta di un sistema di punti interrogativi”.
Interrogativi aggravati dall’atteggiamento ondivago di Macron e del governo: allungamento dell’età pensionabile? No, meglio l’allungamento del periodo contributivo; riforma al 2025? No, meglio al 2035 o al 2040, anzi riforma solo per i nuovi assunti (è stata definita, ironicamente, la “clausola del nonno” e ha rischiato di far dimettere l’Alto commissario Delevoye); sistema contributivo per tutti? No, per carità, i diritti quesiti non si toccano.
La sensazione, alla vigilia del D-Day sindacale, è che il governo non sia più in grado di governare la riforma e che ora non resti altro da fare che scavallare il 5 dicembre ed evitare che “privilegiati” (i dipendenti pubblici) e “dimenticati” (così si definiscono i Gilet gialli, les oubliés de la République) mettano a fattor comune la voglia di dare una spallata a un presidente che voleva cambiare il Paese ma non ha saputo convincere. Peccato.

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