19 Settembre 2024

Fonte: La Stampa

di Francesco Olivo

L’ira del governo contro la scelta di indire il referendum. Indagati i leader secessionisti

L’antipasto della vendetta di Madrid è già un piatto pesante. Il comandante dei Mossos d’Esquadra ha ricevuto l’ordine di reprimere qualunque preparativo del referendum indetto per il primo ottobre e considerato illegale dalla Spagna.
Trapero, il poliziotto simbolo delle indagini degli attentati di agosto e orgoglio del governo di Barcellona si trova in una situazione molto difficile: a quali ordini disobbedire? A quelli del suo esecutivo o a quelli della legge dello Stato? Il dilemma del comandante è solo uno dei mille risvolti, spesso drammatici, che in queste ore si vivono a Barcellona.
Il governo spagnolo continua sulla propria linea: il referendum non si farà. Le sentenze della Corte costituzionale che cancellano le leggi catalane, ieri sono state pubblicate sulla gazzetta ufficiale e sono quindi esecutive: da questo momento chi trasgredisce è fuori dalla legge. La magistratura si è già mossa, ormai non si contano più indagini e denunce. I politici che firmano atti illegali sono avvisati, i sindaci che vogliano cedere locali comunali per la votazione anche (Barcellona è orientata a negarli). Ma anche i volontari che si sono proposti per aiutare la causa (a ieri erano più di 24.000) rischiano: «Non li avvertiremo uno per uno, ma sanno in cosa incorrono», dice il governo spagnolo. A Barcellona la domanda è ricorrente: «Il presidente della Generalitat andrà in galera?». A leggere le accuse mosse dalla procura non si può escludere: Carles Puigdemont, tra le varie cose, è indagato per malversazione fondi pubblici, per aver utilizzato, secondo la tesi, soldi dello Stato per organizzare il referendum (per esempio con spot televisivi e siti internet dedicati alla consultazione). Ma la foto del «president» in carcere sarebbe in fondo una mossa che Madrid farebbe meglio a evitare.
Il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy, fedele allo stile della casa, non alza la temperatura, almeno a parole, insiste, «il referendum non si farà», ma non calca la mano. Ma intorno a lui i toni sono altissimi: «Colpo di Stato», «dittatura», «la Catalogna è fuori dallo Stato di diritto», si sente ripetere da ministri ed esponenti del Partito Popolare.

La minaccia
Il governo ha in mano, e non da oggi, una carta: la sospensione dell’autonomia regionale, prevista dalla Costituzione, che toglierebbe ogni potere alla Generalitat. Ma l’articolo in questione, il 155, non è mai stato utilizzato e, oltre a difficoltà tecniche di applicazione, avrebbe il risultato di eccitare animi già abbastanza scalmanati.
A Madrid ci sono da mesi forti pressioni per il ricorso alla misura estrema alle quali Rajoy non ha voluto cedere. Per la prima volta, però, ieri un suo ministro ha alluso alla sospensione dell’autonomia: «Utilizzeremo tutti gli strumenti necessari» ha detto il portavoce dell’esecutivo Méndez de Vigo. Altra allusione interessante del ministro: «Speriamo non si arrivi alla violenza». Il processo «sovranista» catalano finora non ha vissuto alcun momento violento (da qui le distinzioni con gli anni terribili dei Paesi Baschi), ma la situazione precipita di ora in ora e il governo sente di doversi appellare «al buon senso e alla prudenza della società catalana, perché ogni governo è preoccupato dalla violenza».
Nell’aria c’è molta attesa. Il calendario, e non è certo casuale, dice che dopodomani c’è la Diada, la festa catalana che dal 2012 viene celebrata con manifestazioni oceaniche piene di bandiere repubblicane. Nell’ora dei muscoli, un’occasione da non perdere.

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