Un territorio al centro di una storica disputa e che recentemente ha scoperto di avere materie prime, oro, petrolio e gas
Un “successo schiacciante, una vittoria storica”: la dimostrazione che il “Venezuela ha un sistema elettorale trasparente e affidabile”. Nicolás Maduro festeggia con un tripudio di dichiarazioni roboanti la vittoria a un referendum su cui aveva puntato tutte le carte lanciandosi in una sfida che accende un nuovo focolaio di tensioni in America Latina.
Siamo ancora lontani dai lampi di una guerra, ma all’orizzonte appaiono le prime saette di un conflitto che sia gli Usa sia la Gran Bretagna osservano con preoccupazione. Lungo i confini della Guyana, nel nord est del Continente, si ammassano contingenti militari. Lo fa il Brasile, preoccupato per quello che potrebbe accadere, lo fa la stessa Guyana che con soli 800mila abitanti teme di essere travolta dai venti patriottici e nazionalistici che il regime di Caracassoffia da settimane. Il presidente del Venezuela vince il suo referendum sull’annessione di una larga fetta della Guyana Esequiba, un territorio di 160 mila chilometri quadrati ricchi di materie prime, oro, petrolio e gas e sancisce con 10.544.320 voti milioni un diritto che considera ancentrale, oltre che storico. Una valanga di sì che sfiora il 90 per cento.
La storia
Con cinque quesiti ha rispolverato una vecchia rivendicazione territoriale sull’ex colonia britannica diventata indipendente nel 1966. Avvolta da una fitta giungla, la Guyana Esequiba era stata conquistata dalla Corona spagnola che aveva cercato di ripopolarla; era passata poi nelle mani degli olandesi e infine ceduta alla Gran Bretagna. Stremata dalla guerra d’indipendenza, Caracas aveva rinunciato a quella fetta di terra che le era sempre appartenuta, e solo nel 1899 si era presentata davanti alla giustizia internazionale rivendicando una sovranità che il verdetto, noto come Lodo arbitrale di Parigi, assegnò definitivamente a Londra.
Il Venezuela gridò allo scandalo, definì quella sentenza una truffa e rifiutò di accettarla. Il contrasto non fu sanato per oltre mezzo secolo e solo quando la Gran Bretagna concesse l’indipendenza alla sua ex colonia raggiunse un accordo con il Venezuela riconoscendo le rivendicazioni del vicino e propose di affidare la controversia alle Nazioni Unite. La diatriba restò sospesa in un limbo di incertezza senza mai raggiungere un’intesa chiara e definitiva. Arrivato al potere, lo stesso Hugo Chávez finì per archiviarla avviando un clima di distensione con la nuova Guayanaindipendente, uno stato poverissimo e privo di risorse, alla quale offrì un aiuto per sostenerla nella sua miseria. Il ricco Venezuela avrebbe venduto il suo petrolio dell’Orinoco a prezzi scontati in cambio di un accordo geopolitico che rafforzava la leadership energetica chavista nella regione. Nicolás Maduro, che era ministro degli Esteri, seguì le direttive del capo e si concentrò sulle lotte interne per emergere come futuro delfino del leader della rivoluzione bolivariana. Una “distrazione” che ha pagato caro e che tutti, opposizione in testa, gli hanno rimproverato anche dopo la morte del suo mentore.
Il tema si è riproposto nel 2020 quando la massima Corte delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, ha preso in mano il dossier su richiesta della Guyana. Il paese aveva scoperto materie prime ricchissime e temeva il risveglio del suo vicino. Cosa che è puntualmente avvenuta. L’Onu, da allora, non si è ancora pronunciata e probabilmente ci vorranno anni prima che lo faccia. Ma quando Maduro ha iniziato a suonare la grancassa e ha promosso il referendum lanciando una massiccia campagna che ha mobilitato tutti gli apparati dello Stato, la Guyana si è allarmata e ha chiesto alle Nazioni Unite di impedire la consultazione. La Corte, venerdì scorso, ha respinto la richiesta e ha autorizzato il referendum. Ma ha anche avvertito Caracas di non forzare la mano e di “astenersi dall’intraprendere qualsiasi azione che possa alterare il controllo della Guyana sull’Esequiba”.
I toni bellicosi di Maduro
L’esortazione non è retorica. La mobilitazione e i toni usati dal presidente venezuelano sono stati chiarissimi. “Quella terra appartiene a noi, è stata difesa dai nostri liberatori e tornerà a esserlo”, ha detto poche ore prima dell’apertura degli 11.122 seggi sparpagliati in tutto il paese. Ma erano soprattutto gli ultimi due dei cinque quesiti proposti a sollevare le maggiori apprensioni. Nel quarto si chiedeva se “si è d’accordo nell’opporsi con tutti i mezzi, nel rispetto della legge, alla pretesa della Guyana di disporre unilateralmente di un mare in attesa di delimitazione”. Dove, “con tutti mezzi”, non si sa bene cosa significhi e se questo presuppone anche l’uso della forza, quindi di un’annessione per via militare.
Il quinto quesito è ancora più esplicito. Si domandava se “si è favorevoli alla creazione dello Stato di Guyana Esequiba e allo sviluppo di un piano accelerato di assistenza globale per la popolazione attuale di quel territorio che comprende la concessione della cittadinanza e della carta d’identità venezuelana”. Un’integrazione totale, degli stessi abitanti, che diventerebbero così ufficialmente cittadini venezuelani.
Tanto slancio e passione nascono da due esigenze. La prima è politica. Maduro è in difficoltà e ha bisogno di giocarsi la carta nazionalista e patriottica per ritrovare il consenso tra la popolazione crollato ai minimi storici. Distrae in questo modo l’attenzione verso i problemi che hanno trascinato il paese in una crisi catastrofica, cerca di recuperare terreno nei confronti dell’opposizione che con Corina Machado, leader della destra e potenziale candidata alle prossime elezioni del 2024, rischia di batterlo cambiando un regime che appare inossidabile.
Il secondo motivo è economico. La Guyana si è scoperta ricca, ricchissima, dopo che la Exxson Mobil, multinazionale energetica statunitense, ha individuato oltre 30 giacimenti di petrolio al largo delle coste sull’Atlantico. I siti si trovano proprio all’altezza del fiume Esequibo da Caracas considerato il confine naturale del territorio che adesso rivendica con forza. Quelle sacche contengono, secondo le stime, 11 miliardi di barili di greggio. Da quattro anni hanno iniziato a produrre quasi 400 mila barili al giorno e questo ha fatto schizzare il Pil al 43, 5 per cento nel 2022 che quest’anno è stimato al 3,2. Un tesoro che ha fatto uscire dalla miseria il più povero e piccolo stato dell’America meridionale.
Oggi la Guyana vede un futuro radioso, tutte le previsioni assicurano che ha molte possibilità di diventare il paese più ricco della Regione se non si farà spolpare dalla corruzione. Nicolás Maduro lo sa. Conquistare la Esequiba sarebbe una bella boccata d’ossigeno. Anche per giocare meglio le sue carte nella partita con gli Usa, pronti a far scattare nuovamente le sanzioni se intralcerà il processo elettorale del 2024 ma anche a corto di petrolio dopo il blocco russo colpito dalle sanzioni per aver invaso l’Ucraina. Non si sa cosa accadrà adesso. Forte del successo, Maduro potrà sostenere con più vigore le sue ragioni in sede Onu chiedendo un verdetto chiaro e definitivo. Oppure forzare la mano e minacciare il suo vicino di invasione. Dovrà in entrambi i casi fare i conti con la ferma opposizione della Guyana che ancora ieri, con il suo presidente Irfaan Ali, vestito in mimetica e davanti ai soldati schierati alla frontiera, ha ribadito: “L’Esequiba è nostra, siamo pronti a difendere ogni suo centimetro quadrato”.