19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Maurizio Ferrera

La legge di bilancio sarà il solito vestito di Arlecchino: tante pezze cucite tra loro in fretta. Ma si possono usare altri strumenti per promuovere crescita, equità e coesione sociale


Ormai sembra chiaro. La prossima legge di bilancio sarà il solito vestito di Arlecchino: tante pezze, cucite fra loro in modo frettoloso. Il piatto forte è la sterilizzazione dell’Iva, il resto sarà un mix di varie misure, ancora da definire (riduzione del cuneo, salario minimo, disincentivi all’evasione, assegno unico per i figli e altre ancora). Data la scelta di non toccare né quota cento né il reddito di cittadinanza, le risorse sono scarse. Se le cose non cambieranno durante l’iter parlamentare, le promesse di «svolta» del governo Conte 2 rischieranno un’amara smentita.
Il nuovo governo non è però condannato al piccolo cabotaggio. Vi sono infatti altri strumenti, oltre al bilancio pubblico, che si possono usare per promuovere crescita, equità e coesione sociale: politiche d’indirizzo e coordinamento, regole e incentivi capaci di riorientare scelte e comportamenti, snellimento delle procedure, razionalizzazioni organizzative. Sotto questi profili, le cose utili da fare sono tantissime.
Prendiamo la scuola. Il neo-ministro Fioramonti non riceverà i «suoi» tre miliardi. A dotazione invariata, potrebbe però tenersi impegnato su alcuni versanti cruciali.
L’istruzione tecnica superiore, innanzitutto. Solo l’1% dei nostri diplomati si iscrive a questa filiera (che pure assicura le offerte d’ impiego), di contro a una media Ocse del 18%. Gli Its (istituti tecnici superiori) sono pochissimi e mal distribuiti sul territorio. Perché non si fanno progressi? Manca un quadro nazionale di riferimento e mancano i Piani di sviluppo regionali previsti dalla legge istitutiva. Non si riescono neppure a spendere i 50 milioni già stanziati, a causa di procedure di assegnazione a dir poco bizantine. Sempre nella scuola, c’è poi la sfida delle competenze digitali: un tema non secondario, da cui dipendono produttività e competitività. Dal 2015 esiste un Piano nazionale per la scuola digitale, con fondi già stanziati. Però solo il 20% dei docenti ha ottenuto una qualche certificazione e un quarto delle scuole non ha organizzato alcuna iniziativa. Gli ultimi provvedimenti del governo gialloverde hanno distribuito piccoli finanziamenti a pioggia (compresi 210 mila euro «complessivi» per promuovere la «diffusione capillare» dell’innovazione didattica e digitale tramite social media). A poco serviranno i (ben) 120 docenti esperti nel digitale appena reclutati, dopo un macchinoso concorso, per formare colleghi e studenti. Le risorse contano, ma spesso gli incentivi contano di più. Giustamente il neo-Ministro ha detto che occorre riformare l’intero sistema di formazione, reclutamento e carriera: lo stipendio finale di un docente italiano è metà di quello tedesco o olandese. La misura più irragionevole sarebbe però un aumento generale scollegato dalle valutazioni individuali (anche in termini di competenze digitali).
Osservazioni analoghe valgono anche per le politiche del lavoro. Qui la sfida più seria è l’esorbitante numero di neet, ossia giovani fra i 20 e i 34 anni che non studiano, non seguono percorsi di formazione e non lavorano. Nelle statistiche di Eurostat i neet italiani sono il 25% delle corrispondenti classi di età, concentrati soprattutto al Sud. Dal 2014 è operativo il programma Garanzia Giovani, co-finanziato dalla Ue. Per la quota di neet, l’iniziativa è stata un mezzo fallimento. Solo il 14% di questi giovani è stato intercettato e registrato, pochi hanno ricevuto offerte di lavoro o formazione. Colpa dei servizi pubblici per l’impiego? In parte sì. Ma anche colpa del ristagno economico meridionale. Che facciamo allora? Ci rassegniamo a sussidiare i disoccupati con il reddito di cittadinanza? È urgente adottare misure regolative e organizzative che rendano più efficiente la presa in carico dei neet da parte dei servizi per l’impiego e più in generale occorre farsi venire delle idee su come creare posti di lavoro (veri) al Sud.
Per finire, parliamo di ambiente. Il governo ha annunciato il lancio di un nuovo patto «verde», per il quale potrebbe legittimamente chiedere ulteriore flessibilità alla Ue. Ma serve un grosso lavoro preparatorio. Va riformulato il Piano nazionale per il clima e l’energia e va definita la Strategia per la riduzione dei gas serra. Fra le proposte per la Legge di Bilancio vi è un piano di investimenti pluriennali da 50 miliardi. A cosa serviranno tutte queste risorse se poi non sapremo dove spenderle? E soprattutto se non riusciremo a spenderle?
Alla fine si arriva sempre lì: alle lacune (incompetenza, lentezza, rigidità) della nostra pubblica amministrazione. Invece di facilitare, in Italia la burocrazia continua a ostacolare tutto, senza se e senza ma. E allora diciamolo. Senza incidere nel profondo in questo settore, le politiche pubbliche italiane continueranno a fallire i loro obiettivi. Per svoltare sul serio bisogna partire da qui. Con pragmatismo e pazienza. Ma anche con una determinazione che nessun governo ha, fino ad oggi, saputo mostrare.

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