19 Settembre 2024

«Obiettivo di legislatura». È la formula alla quale il governo ricorre sempre più spesso per giustificare davanti agli elettori la difficoltà di mantenere le promesse. Due esempi per tutti. l primo: Quota 41, tanto cara alla Lega, ovvero la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. Costa troppo: 4,3 miliardi il primo anno e circa 9 a regime. Quindi per il 2024 non se ne parla. Lo si farà entro il 2027, scadenza naturale della legislatura, dice il Carroccio, che comunque non rinuncia a giocarsi un anticipo di partita con la prossima manovra.
Tanto è vero che si è fatto fare dai tecnici delle stime sull’ipotesi, solo per il 2024, di Quota 41 ma con l’assegno calcolato integralmente col metodo contributivo anziché col misto (retributivo per gli anni di lavoro precedenti il 1996). Costerebbe «solo» poco più di un miliardo nel 2024 (3,7 miliardi nel triennio), ma poi si risparmierebbero 8-900 milioni di euro l’anno per effetto degli assegni più leggeri frutto del calcolo contributivo.
Ma anche questa ipotesi ha poche possibilità di passare. Forza Italia preferirebbe usare eventuali risorse per aumentare le pensioni minime. La promessa lasciata in eredità dal fondatore, Silvio Berlusconi, è di portarle a mille euro al mese. Ma anche questo è presto diventato, nelle parole degli stessi azzurri, «un obiettivo di legislatura». Nel 2024, però si potrebbe decidere, dice il partito guidato ora da Antonio Tajani, un ulteriore aumento delle minime, già incrementate a 600 euro per gli over 75 dalla prima manovra Meloni. Lo scontro nella maggioranza dovrà essere risolto dalla premier in persona.

Spese se si risparmia
Intanto, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti (Lega, nella foto), sembra intenzionato a imporre la linea dello scorso anno: eventuali maggiori spese in un capitolo devono essere coperte con risparmi nello stesso settore. Di qui il timore, più che fondato, che eventuali misure di anticipo dei pensionamenti o di aumento degli assegni al minimo possano essere finanziate, come lo scorso anno, con un taglio del meccanismo di indicizzazione delle pensioni al costo della vita per gli assegni superiori a 4 volte il minimo (2.100 euro). In questo modo Giorgetti, la volta scorsa, trovò una decina di miliardi per il triennio 2023-25, che diventano 36 in dieci anni. A conferma che fare cassa sulle pensioni è abbastanza semplice.

Taglio alle tasse
E veniamo al secondo esempio di promesse che devono fare i conti con la realtà: la flat tax, sia nella declinazione di flat tax per tutti, dipendenti e autonomi, sia in quella di flat tax incrementale (aliquota unica sui redditi aggiuntivi) dal 2024. La flat tax per tutti è stata inserita nella legge delega di riforma del fisco, ma il governo ha subito chiarito, attraverso il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo (Fratelli d’Italia), che essa si farà, «entro la legislatura» e «se ci saranno le risorse», mentre la flat tax incrementale estesa ai dipendenti è stata tolta nella discussione parlamentare e sostituita con l’obiettivo di detassare le tredicesime, migliorare la tassazione agevolata sui premi di produttività e aumentare il tetto per i fringe benefit. Ma la priorità, ribadita dalla stessa Meloni, resta la conferma degli effetti del taglio del cuneo fiscale sulle retribuzioni fino a 35 mila euro lordi, altrimenti da gennaio 14 milioni di dipendenti troverebbero fino a 100 euro netti in meno in busta paga. Più che una priorità, per il governo è una necessità impedirlo. E potrà farlo sia prorogando gli attuali tagli sia ottenendo gli stessi effetti attraverso la riforma dell’Irpef — anche questa dovrebbe partire nel 2024 — con la riduzione delle aliquote da 4 a 3, a vantaggio dei ceti medio bassi. Va tenuto presente che per confermare il taglio del cuneo servono una decina di miliardi.

Nadef e Pil
A complicare il quadro sono arrivati, venerdì, i dati definitivi dell’Istat sul Pil nel secondo trimestre. Rispetto alla stima preliminare, il dato è peggiorato: il Pil è sceso dello 0,4% rispetto al primo trimestre e la crescita acquisita per quest’anno allo 0,7%. Significa, come spiega Sergio De Nardis, economista della Luiss, che la Nota di aggiornamento del Def, che il governo presenterà entro il 27 settembre, correggerà al ribasso la stima del Pil: «Rischia di scendere dall’1% allo 0,8% quest’anno e dall’1,5% all’1,2% nel 2024». Dovrà essere rivisto anche il deficit tendenziale, che l’anno prossimo potrebbe salire «vicino al 3,7% del Pil, lo stesso livello fissato dal governo per il deficit programmatico, mangiandosi così quel tesoretto di 0,2 punti, circa 4 miliardi, sui quali contava il Def».
Certo, aggiunge De Nardis, risorse inattese possono arrivare da altre fonti, per esempio i risparmi sull’Assegno di inclusione e su altre voci rispetto ai fondi stanziati. «Ma visto il restringersi se non l’esaurirsi dei margini per una manovra espansiva, cioè finanziata col deficit — conclude l’economista — diventa ancora più necessario ricevere e poi spendere i soldi del Pnrr». Senza i 35 miliardi della terza e quarta rata, che il governo conta di ottenere entro quest’anno, le prospettive del Pil non potrebbero che peggiorare, tanto più che la congiuntura internazionale non tira. E allora molte altre cose verrebbero rinviate dietro la formula dell’«obiettivo di legislatura».

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