20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Raffaele Polato

I 14 anni al Lingotto: dal sì di Obama per Chrysler al no di Merkel per Opel. La battaglia dei referendum a Mirafiori e Pomigliano: «Voi parlate di me, di Elkann, degli Agnelli, ma la Fiat significa innanzitutto decine di migliaia di posti di lavoro e di azionisti»

L’uomo che ha spostato i confini sempre un po’ più in là. Che aveva un fuso orario tutto suo: zero. Che un giorno di pochi mesi fa, a Maranello, nella sala in cui era da poco finito un board Ferrari, confessò «sono stanco» e noi gli avevamo creduto sì e no. Sì, perché parlava di Fca ed era impossibile che 14 anni passati più in aereo che nei tanti uffici, notti e giorni assorbiti dalla trasformazione di un’azienda fallita in un player globale ad alta redditività, non l’avessero logorato: è stato entusiasmante, ma «chi comanda è solo» e il prezzo per lui «è stato altissimo anche in termini di vita privata».
Eppure no, quel giorno a Sergio Marchionne non abbiamo creduto fino in fondo. Perché poi si era messo a raccontare di Ferrari, dove avrebbe voluto «traslocare» già a inizio 2019, e stanchezza fisica e intellettuale erano sembrate come esorcizzate. «Ho appena parlato con Seb», leggi Sebastian Vettel: se impara a controllare le emozioni che ogni tanto gli scappano, come non fosse tedesco ma «un uomo del Sud, quest’anno abbiamo le carte per battere Lewis», ovvero Hamilton, e l’antipatica Mercedes. E vogliamo parlare della Rossa in quanto azienda? «Mi davano del matto, quando dicevo che andava confrontata con i gruppi del lusso e che per me valeva almeno 10 miliardi». Oggi la Borsa la valuta a 24. Due miliardi meno dell’infinitamente più grande Fca.
«Il matto» ancora una volta aveva avuto ragione. Non è che non abbia mai fatto errori (che ammetteva). Ma detestava l’ovvio, i «non si può fare»: e li sfidava. Delle tante chiavi dietro i suoi successi una, forse, può riassumere le altre: rompere gli schemi. Lo ha fatto dall’inizio, in azienda. E poiché Fiat non è mai stata un’azienda qualsiasi, ma il primo gruppo industriale del Paese, spesso le «rivoluzioni Fca» si sono trasformate in rivoluzioni di sistema.
Ricordiamo tutti come è andata. Fine maggio 2004, il Lingotto annuncia che a guidare il gruppo dopo la morte di Umberto Agnelli saranno Luca Montezemolo e Sergio Marchionne. Il primo lo conoscono ovunque. Del secondo pochi sapevano persino che fosse già in consiglio, voluto proprio da Umberto, e anche quei pochi reagiscono così: «Marchionne chi?». Non parliamo dei big dell’auto. Fiat è di fatto fallita e John Elkann e gli Agnelli, consigliati da Gianluigi Gabetti, cosa fanno, mettono un marziano a fare il quinto amministratore delegato in due anni? Auguri.
I colossi che già si preparavano a spartirsi il concorrente non si ricredono neppure quando — tra una visita e l’altra agli stabilimenti, perché «ho visto fabbriche che neanche in un romanzo di Dickens: come puoi chiedere agli operai di fare prodotti di qualità se li fai lavorare in quelle condizioni?» — Marchionne rinegozia il debito con le banche e l’accordo con General Motors. Il miracolo gli riesce, ottiene l’ossigeno per rilanciare la produzione: e farsi pagare da Detroit 1,55 miliardi di dollari per la rinuncia (loro, degli americani) a prendersi Fiat. Un capolavoro degno del contratto messo a punto da Paolo Fresco.
Anche qui, però. I concorrenti non si spaventano. «Va bene, è un eccellente negoziatore, un ottimo uomo di finanza. Ma fare auto è un’altra cosa». Verissimo. Però Torino comincia col tirar fuori la Punto. Investe nelle fabbriche. «Umanizza gli stabilimenti», come promesso. La qualità risale, le vendite idem. E Marchionne dagli operai, dal sindacato, persino da Rifondazione viene osannato: di lui, Fausto Bertinotti dirà che è l’emblema del «borghese buono». È il potente ceo del gruppo simbolo del capitalismo italiano. Ha una laurea in economia, una in legge, un dottorato e svariati honorem. Ma è anche l’orgoglioso figlio di un maresciallo dei carabinieri (perciò, nonostante già non stesse bene, il 25 giugno non ha rinunciato a consegnare di persona le nuove Jeep all’Arma). È il bambino emigrato in Canada che non lo dimentica, quanto sia dura integrarsi, è il ragazzo che per la prima delle sue lauree scelse Filosofia: «Papà mi disse: vuoi finire a vendere gelati?».
Chiaramente non durerà, l’idillio con i sindacati e la sinistra. Si avvicina il 2008, la Grande Crisi Globale. Il Lingotto ha appena fatto in tempo a festeggiare il rilancio con la nuova 500, e già deve ricominciare da capo. Parte la ristrutturazione hard, che porterà anche alla chiusura di Termini. Marchionne studia due strade, per trasformare la crisi in opportunità. La prima: mentre tutti si chiudono a riccio aspettando che passi lo tsunami, lui tratta con Barack Obama e conquista Chrysler (a costo zero per Fiat). La seconda: i contratti di lavoro. Sono fermi al Novecento. Siamo nel Duemila, il mondo cambia «alla velocità della luce»: la flessibilità non è più un optional, nemmeno per gli operai. Tradotto in linguaggio sindacale significa superare le rigidità del contratto nazionale con contratti aziendali. Ne parla con Confindustria, e Confindustria lascia scadere il tempo: non avevano capito che Marchionne non scherzava, e davvero se ne andrà. I sindacati no, sanno che fa sul serio. Il problema, per loro, è: lo gestiamo, il cambiamento che tanto arriverà, o diciamo no? Cisl, Uil, i Quadri sono per la trattativa. La Fiom Cgil è convinta di poter costringere Marchionne alla marcia indietro. Inizia una lunga guerra. Parte la stagione dei referendum, durissima e sofferta soprattutto da chi nelle fabbriche ci lavora: sono i loro, i posti e gli stipendi in gioco.
Le notti di Mirafiori e Pomigliano sono le più drammatiche. Le passa sveglio anche l’amministratore delegato, in attesa della telefonata che dirà se ha vinto il sì o il no. Vince il sì. È una rivoluzione, e va subito oltre il Lingotto: i contratti aziendali, che nessuno chiama più (spregiativamente) «modello Marchionne», sono ormai la normalità.
Lui non è mai più tornato sull’argomento. In epoca di delocalizzazione spinte, aveva riportato la Panda dalla Polonia all’Italia, a Pomigliano, e portato la Jeep a Melfi. Eppure c’era chi continuava a rinfacciargli di non aver mantenuto le promesse di Fabbrica Italia. «Non ci sto a farmi impiccare alle parole», meglio altri confini da «spostare un po’ più in là». Tentando, per esempio, di «bissare» Chrysler con Opel. Sapeva che Angela Merkel non l’avrebbe mai venduta agli italiani ma «allora giusto provarci anche se ora — confessò in quella sala di Maranello — «dico per fortuna è andata così, Chrysler più Opel sarebbe stato complicato». E Fca è diventata lo stesso uno dei big player. L’obiettivo «non per deboli di cuore» di spostarla sui segmenti premium è stato centrato, la strategia degli scorpori (ora tocca a Marelli) pure: Fiat, Ferrari e Cnh valgono 62 miliardi, oltre dieci volte quel che valevano insieme nel 2004.
Poi no, non tutto gli è riuscito. Troppo ostico come negoziatore, perché qualcuno trattasse con lui la Grande Alleanza. Qualche mossa sbagliata nel rilancio Alfa. Qualche slalom in politica: gli applausi a Mario Monti e poi il «mi ha deluso» a fine corsa, gli scontri iniziali con Matteo Renzi e poi gli applausi anche a lui e anche a lui la sentenza-delusione. Rincorsa pro-Fca al potente di turno? Mai: «Un’azienda ha per definizione interesse a che il Paese funzioni, e perché questo accada servono governi stabili», ma ciò non cancella il diritto di critica. E poi: «Voi parlate di Marchionne, di Elkann, degli Agnelli. Dimenticate decine di migliaia di posti di lavoro e decine di migliaia di piccoli azionisti».
E c’entreranno pure certe tensioni (sempre smentite) degli ultimi tempi con Elkann, magari sulla faticosa scelta (ieri diventata obbligata) del successore, ma forse anche quell’idea di azienda spiega l’ultima scelta: firmare il piano industriale al 2022, pur avendo già deciso di lasciare a fine anno, per poter chiudere il cerchio aperto il primo giugno 2004 tracciando ancora una volta un percorso. Balocco, primo giugno 2018, tra le auto di un gruppo senza debiti: il suo vero congedo sarebbe comunque stato quello. Nessuno poteva immaginare che non sarebbe stato solo da Fiat.

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