Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
Le evoluzioni che il presidente del consiglio sta oggettivamente incarnando e introducendo sono il prodotto ineluttabile delle mancate riforme della nostra Costituzione
Mario Draghi si sta trasformando di fatto in una sorta di De Gaulle italiano. Nell’uomo cioè che giunto al potere per una combinazione imprevedibile di eventi opera — difficile dire con quanta consapevole volontà di farlo — una trasformazione sostanziale del sistema politico. Una trasformazione osmotica — attraverso piccoli passi quotidiani, tutta nella prassi con cui tale sistema funziona — che però evoca inevitabilmente una trasformazione anche delle sue regole. In quale direzione precisa, attraverso quali strumenti e con quali conseguenze sulla vita pubblica del Paese e sui suoi meccanismi di governo, ancora non lo sappiamo. Ma il fenomeno e le sue linee di tendenza sono evidenti a chiunque abbia occhi per vedere.
Draghi sta dando vita ad una sorta di semipresidenzialismo sui generis, che arieggia per l’appunto quello della V Repubblica gollista, nel quale (salvo il caso raro della cosiddetta «coabitazione») il mandato di governo è di fatto staccato dalla effettiva volontà dei partiti che compongono la maggioranza parlamentare. Sia chiaro: egli non governa senza o contro tale maggioranza, ma tale maggioranza è come implicitamente presupposta, in un certo senso data per scontata dagli stessi partiti che la compongono, i quali accettano volontariamente l’ininfluenza del loro eventuale dissenso.
Il governo resta nominalmente un governo parlamentare ma gli attori parlamentari, cioè i partiti, abdicano di fatto alla loro sovranità decretando in tal modo la loro tendenziale irrilevanza. Assistiamo così, in nuce, ad un oggettivo cambiamento di regime. La formula «In Italia il governo si forma in Parlamento» — sempre opposta vittoriosamente da parte dei fautori del parlamentarismo assoluto instaurato dalla lettera della Costituzione contro ogni proposta di rafforzamento/stabilizzazione dell’esecutivo (magari anche attraverso la sua elezione popolare) — tale formula, dicevo, è virtualmente svuotata di ogni valore nel momento in cui ascoltiamo il presidente del Consiglio che a proposito del dissenso manifestato da alcuni partiti nei confronti dell’operato del suo governo dichiara olimpicamente: «I partiti svolgano pure il loro dibattito. Il governo va avanti». Come se una cosa non riguardasse l’altra.
E in effetti è proprio così, dal momento che il mandato vero a governare, il mandato sostanziale, Mario Draghi non lo trae dalla volontà dei partiti — il cui voto di fiducia sembra avere ormai solo un valore di ratifica formale — ma da un’altra fonte, che potremmo indicare come «la volontà del Paese». Una volontà extracostituzionale che una decisione del presidente della Repubblica ha per così dire costituzionalizzato. Nella crisi del governo Conte del febbraio scorso Mattarella, infatti, ha toccato con mano il grado di inconsistenza programmatica, di lacerazione interna, di reciproca incompatibilità, raggiunto dai raggruppamenti politici. È stato costretto insomma a prender atto della virtuale disintegrazione del sistema dei partiti, e dunque non ha potuto fare altro che dare spazio, in virtù dell’ampia discrezionalità attribuita ai poteri della sua carica, alla «voce del Paese» da lui liberamente ma saggiamente interpretata. Qualcosa che alla lontana, e per fortuna con ben minore drammaticità, ricorda la chiamata al potere del generale De Gaulle da parte del presidente Coty nel maggio 1958 in Francia.
Finisce così la lunga storia della partitocrazia italiana: trasformatasi con gli anni da ossatura indispensabile della Repubblica, da cuore della sua costituzione materiale, nella sua mortale pietra al collo. Ma dal momento che è difficile pensare che si possa tornare indietro, che ci possa mai essere una qualche «riforma» dall’interno dei partiti, di questi partiti, si apre adesso un periodo denso di incognite. Specialmente per l’altissimo grado d’informalità, di irritualità, di assenza di regole in cui ci stiamo muovendo. C’è in tutto questo qualcosa di fatale, di inevitabile.
Infatti, i cambiamenti che Mario Draghi sta oggettivamente incarnando e introducendo nel nostro sistema politico (ripeto: al di là probabilmente di ogni sua effettiva intenzione), sono il prodotto ineluttabile delle mancate riforme della nostra Costituzione . Riforme di cui il Paese discute inutilmente ormai da più di un trentennio (un trentennio!), sempre rinviate, sempre mancate, per colpa della mediocrità intellettuale e della mancanza di coraggio di una classe politica figlia di un parlamentarismo esasperato abituato a nascondere le sue miserie dietro l’insopportabile retorica della «difesa della Costituzione» : in nome della quale essa però ha sempre potuto contare sul soccorso di volenterose quanto sconsiderate schiere di intellettuali, attori, comici e accademici vari. Come accadde puntualmente, si ricorderà, nell’unica occasione in cui le cose avrebbero forse potuto cambiare: con quel referendum costituzionale del 2016, voluto da Matteo Renzi, ma da lui stesso avviato alla sconfitta grazie al suo autolesionistico narcisismo. Il Draghi di oggi rappresenta in qualche modo la nemesi della débâcle del Renzi di ieri.
Ed appare alquanto singolare il coro delle lamentele. Il lungo passato di declino dei partiti, la lunga storia di progressiva paralisi del sistema politico, di proposte di porvi rimedio ogni volta andate a vuoto, rendono infatti più che sospette di una certa malafede le denunce e le recriminazioni da parte di quelli che così si candidano a partigiani dell’antico regime. I quali, sparsi un po’ dappertutto lungo l’arco politico — ma più numerosi e arrabbiati nell’area che sta a mezzo tra i 5 Stelle e una certa destra scervellata — appaiono come null’altro che i puntigliosi conservatori di «quello che c’era prima», di «come si faceva prima»: dimentichi però che proprio «quello che c’era prima» ci ha portato alla situazione di oggi