Fonte: Corriere della Sera
di
La Procura di Roma ha aperto fascicoli separati, una decina gli indagati. Milioni di protezioni immesse sul mercato con false certificazioni o pagate anche fino a cento volte in più del valore reale.
Milioni di mascherine immesse sul mercato senza la certificazione oppure pagate a prezzi da capogiro. Intere partite reperite nel momento peggiore della pandemia da coronavirus con finte fideiussioni e vendute agli enti pubblici a costi esagerati, anche dieci, cento volte più del valore reale. Con un esborso di soldi da parte dello Stato per centinaia di milioni di euro. Passata la fase dell’emergenza più grave, la Procura di Roma si concentra sulle forniture dei dispositivi ritenuti indispensabili per proteggere il personale sanitario e i cittadini. Sono quattro i fascicoli aperti dal gruppo di magistrati guidati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, una decina gli indagati per frode in commercio. Primo passo di un’indagine che mira pure a verificare se all’interno delle amministrazioni (Regione, aziende sanitarie, Protezione civile) ci siano funzionari infedeli che abbiano agevolato aziende in cambio di soldi. Dunque se dietro il grande affare che ha segnato i primi mesi dell’epidemia ci siano episodi di corruzione. Mazzette versate a chi doveva stilare la lista dei fornitori per riuscire a essere inseriti.
I sequestri alla Dogana
Un lavoro capillare svolto dai pubblici ministeri anche grazie all’impegno dell’Agenzia delle Dogane guidata da Marcello Minenna che ha bloccato numerosi carichi, segnalando tutte le irregolarità compiute e consentendo di ricostruire il percorso dalla produzione all’estero sino all’arrivo alla frontiera e — quando è accaduto — alla consegna. I numeri dei sequestri effettuati forniscono il quadro di quanto accaduto in questi mesi dimostrando che la speculazione era ben più ampia, visto che oltre al blocco di 4 milioni e 800 mila mascherine nei magazzini sono rimasti 65 mila e 800 dispositivi per la terapia intensiva, oltre 26 milioni di guanti monouso, 216 tute, più di 47 mila occhiali e persino 86 mila confezioni di alcool. Prodotti non conformi alle norme, la maggior parte con una certificazione fasulla.
Le false fideiussioni
Sin dalla fine di febbraio scorso era apparso chiaro quanto il reperimento di mascherine potesse trasformarsi in una svolta economica per le aziende, ma pure per gli intermediari. L’Italia, infatti, non produceva questo tipo di dispositivi di protezione e per ovviare alle carenze negli ospedali, nelle Rsa, nelle strutture private e anche per consentire ai cittadini di uscire di casa, è scattata la corsa all’accaparramento. Così, mentre alcune società chiedevano al ministero della Salute il via libera per riconvertire la propria attività, altri si concentravano sui contatti con ditte estere, soprattutto cinesi. E si affidavano a mediatori per riuscire ad aggiudicarsi le forniture. Alcuni sono stati indagati per aver preteso milioni di euro per favorire il contatto che in realtà si è rivelato inesistente. Altri si sono adoperati per far elargire fideiussioni oppure polizze a garanzia agli enti pubblici — è il caso delle mascherine vendute alla Regione Lazio — che si sono poi rivelate false.
Il caso più eclatante agli inizi di aprile ha portato all’arresto di un imprenditore che si era aggiudicato una gara Consip da 253 milioni di euro per 24 milioni di mascherine che dovevano essere consegnate entro tre giorni e invece non esistevano.
I certificati contraffatti
In alcuni casi si è scoperto invece che le mascherine ordinate non erano conformi agli standard. Milioni di pezzi sono stati buttati perché una volta arrivati in dogana si è accertato che non avevano alcuna certificazione. Ed è scattata l’indagine penale perché la fornitura era stata pagata nel timore di non riuscire ad ottenerla. Alcuni imprenditori — quando esisteva uno standard minimo di requisiti — hanno preferito optare per la declassificazione da «filtranti» a «generiche». Sono le mascherine di stoffa che non possono essere utilizzate dalle strutture sanitarie e sono state riciclate. Altri, infine, sono stati indagati perché hanno consegnato prodotti differenti da quelli acquistati, nonostante ne avessero garantito la funzionalità.