Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
I due leader condividono il movimento continuo e puntano entrambi ai voti ex berlusconiani
Matteo Renzi ci sta dimostrando in queste ore che le vicissitudini del suo passato non erano frutto di un «cattivo carattere», come pure si è benevolmente detto, ma bensì di un preciso modo di concepire la lotta politica. Poiché è uno stile che condivide con l’altro Matteo della politica italiana, e non si sa mai se è nato prima l’uovo o la gallina, forse si può provare ad analizzare questo matteismo-leninismo che domina ormai da anni il discorso pubblico nel nostro Paese, quotidianamente in attesa di scoprire chi asfalterà chi, ma perennemente incerto su chi governerà dopo. Non se ne abbiano a male i fan di entrambi, facili all’offesa quando si paragona il loro leader all’altro, considerato il male assoluto; ma per quanto in questa fase Matteo S. sia allo zenit della sua parabola e Matteo R. al nadir del suo consenso, in passato fu il contrario, e molto li accomuna. Del leninismo condividono entrambi una visione dinamica, leaderista e giacobina, rivoluzionaria della lotta politica. Che si risolve nel momento della presa del potere. Che non fa prigionieri. Alla guerra di posizione, tipica delle democrazie parlamentari fondate su alleanze e coalizioni, preferiscono quella di movimento. Anzi, si può dire che per loro il movimento è tutto. Infatti continuano a muoversi vorticosamente anche quando hanno raggiunto l’obiettivo del governo. Salvini fece saltare quello di cui faceva parte; e Renzi addirittura quello che presiedeva, innescando la bomba ad orologeria del referendum che doveva consegnargli l’Italia su un piatto d’argento e invece gliela strappò per sempre.
Questa idea della rivoluzione permanente ha infatti i suoi vantaggi quando sei all’opposizione, paga pegno se sei al potere. È caratterizzata da un iper-politicismo esasperato, nel quale all’arte del possibile si sostituisce il virtuosismo dell’artista. Sono bravi entrambi a prendersi la scena, e a non mollarla più. E lo fanno con quel pizzico d’arroganza di chi sa che in politica non si deve chiedere mai, perché fa tanto «uomo forte». Così uno non si è peritato di aprire una crisi di Ferragosto dalla spiaggia del Papeete, e l’altro – di gusti più elitari – ha gestito una crisi di Carnevale dalle nevi dell’Himalaya.
Non a caso i due Mattei sono campioni mondiali di elezioni europee, che vincono a mani basse e con percentuali stratosferiche, come quei giocatori di calcio formidabili nel dribbling che ammaliano le folle delle amichevoli finché non arriva la sfida scudetto. Per ora, infatti, entrambi hanno mancato il gol decisivo, quello che laurea i fuoriclasse: Renzi perdendo il referendum, Salvini perdendo il voto anticipato in estate.
Matteo S. e Matteo R. hanno imparato una legge fondamentale della politica moderna, che Berlusconi aveva anticipato: non dire mai ai tuoi elettori che cosa devono fare, ma chiedi che cosa puoi fare tu per loro. Solo che il Cavaliere aggiungeva Letta e Tremonti, cioè la prosa del governo. Mentre Salvini tiene Giorgetti alla catena e Renzi ha litigato anche con Lotti. La piramide della politica tradizionale, con i programmi in cima e la base sociale sotto, si è così rovesciata in un sistema 2.0, in cui è il consumatore che sta sopra e detta i contenuti. I quali possono perciò agevolmente cambiare a seconda del bisogno, passando dal secessionismo al nazionalismo, o dal mai con i Cinquestelle al governo con i Cinquestelle.
C’è oggi però una macroscopica differenza tra i due. Salvini gioca nell’arena del Paese, dove questo modo di intendere la politica incontra un elettorato da tempo radicalizzato e insofferente, dunque sensibile al messaggio; e infatti si muove in uno spazio che è quasi un terzo del totale di chi risponde ai sondaggi. Renzi invece gioca nel Palazzo, dove è costretto da un consenso che è meno del 5%, e dunque in condizioni ambientali le meno indicate per il gioco totale, di movimento, che tanto gli piace.
È chiaro che l’ex premier spera – e non è davvero il solo – di ereditare una quantità di voti ex berlusconiani e cosiddetti moderati che possa fargli raddoppiare le sue percentuali attuali. In un sistema proporzionale, quale si prepara, con l’8-10% puoi essere il dominus delle alleanze che si formerebbero in Parlamento, liberamente e spensieratamente, dopo il voto. Ma è proprio il suo stile politico a portare nel Dna il difetto che può perderlo. La tattica del movimento continuo è infatti di per sé nemica della stabilità. Mentre se c’è qualcosa che accomuna il benedetto elettorato di centro, oggi a parole disprezzato seppur da tutti disperatamente cercato, è una robusta preferenza per i vantaggi della stabilità politica. Questi italiani, e con loro pezzi importanti dello stesso establishment che ne favorì l’ascesa, potrebbero presto non ricordare più perché Renzi stia facendo il Gianburrasca, se per la prescrizione o i decreti sicurezza o le opere da cantierare. Con il risultato di consegnare proprio a Conte, nemico giurato di entrambi i Mattei, obbiettivo comune da abbattere, il dividendo della difesa della stabilità. I «tecnici» che l’hanno investito alle elezioni prima di lui, da Dini a Monti, ne trassero un gruzzoletto di voti che oggi sarebbe sufficiente a fare la felicità di Renzi, e a fare la differenza per Salvini.