Fonte: La Stampa
La premier britannica alla Bbc: «Stiamo cercando l’accordo giusto per il commercio»
Potrebbero essere le idi di marzo dell’Unione Europea. Theresa May rompe gli indugi e annuncia per l’inizio del 2017, al massimo entro quel mese fatale, l’avvio dell’iter di divorzio da Bruxelles: con l’innesco dell’articolo 50 del trattato di Lisbona destinato a segnare il primo rintocco d’un conto alla rovescia di due anni. Lo sparo dello starter è rimbombato da Birmingham, dove la premier britannica ha aperto oggi la Conferenza annuale del Partito Conservatore con un intervento all’insegna della Brexit. E la prima reazione di Bruxelles è parsa malgrado tutto di sollievo, se non altro per la fine dell’incertezza: «È un annuncio benvenuto che fa chiarezza», ha fatto sapere Donald Tusk, pur aggiungendo che nel negoziato gli altri 27 difenderanno i loro interessi.
L’intervento di May a Birmingham, preceduto da un articolo sul Sunday Times e da un’intervista al talk show Bbc di Andrew Marr, è servito inoltre a proclamare solennemente l’intenzione d’inserire nel prossimo Queen’s Speech l’abolizione dello European Communities Act del ’72 e preparare lo sganciamento dalle norme Ue. In sostanza si tratterà di trasformare le leggi comunitarie in nazionali, di modo che – a Brexit attuata – il parlamento di Westminster possa decidere liberamente quali mantenere, quali modificare e quali gettare nel cestino.
«Attiveremo l’articolo 50 entro marzo dell’anno prossimo e il Regno Unito tornerà a essere una nazione indipendente e sovrana», ha tagliato corto May fra gli applausi della platea Tory. Quanto all’European Communities Act, sarà cancellato da un «Great Repeal Bill» (Legge della Grande Abrogazione, da sottoporre peraltro al voto delle Camere), «primo passo verso la restituzione del potere alle istituzioni elette del nostro Paese». Così, ha tuonato, «l’autorità dell’Ue sulla Gran Bretagna avrà fine: le nostre leggi torneranno a essere fatte a Westminster, non a Bruxelles, e interpretate dai nostri giudici a Londra, non a Lussemburgo». Parole colorate di retorica congressuale che hanno entusiasmano tanto la pancia (maggioritaria) del suo partito quanto i media eurofobi del regno. E che tuttavia qualche incognita la lasciano sospesa.
Il segnale politico che lady Theresa ha inteso dare è netto: il verdetto di giugno, venuto da «un referendum legittimo» che è stato «il più grande voto di cambiamento» nella storia del Paese, non si discute. Il treno è in partenza e non vi sarà spazio per ripensamenti o illusioni di rivincita («ma andiamo!», ha ironizzato la premier all’indirizzo di chi immagina ricorsi giudiziari). Non solo. Ha smentito una volta di più pure i `rumors´ di elezioni anticipate: sarebbero «destabilizzanti», ha sentenziato. Rimane però in ballo un punto nodale: quale Brexit, hard o soft? Le scuole di pensiero vedono da un lato i `brexiter´ senza se e senza ma (in testa i ministri Boris Johnson, David Davis e Liam Fox) che suggeriscono di rinunciare anche solo a cercare di mantenere un piede nel mercato unico, limitandosi a offrire la rinuncia unilaterale a dazi o barriere a tutti coloro che rinunceranno a loro volta a imporli all’isola; dall’altro una parte consistente del business e della City, spalleggiata dal cancelliere dello Scacchiere, Philip Hammond, che spera almeno in un compromesso e teme che la bonaccia attuale sull’economia britannica sia passeggera.
I toni della May, segnati dalla volontà d’avere mano libera sull’immigrazione ripristinando «il controllo delle frontiere», fanno propendere verso la soluzione hard, visto che l’Ue dichiara irricevibile qualsiasi limite alla circolazione delle persone. Ma non è ancora detta l’ultima parola, tanto più che la nuova `signora di Downing Street´ non rinuncia al «libero commercio» con il resto d’Europa. Promettendo in cambio «il pieno rispetto dei diritti» acquisiti dei lavoratori `continentali´ residenti nel regno anche in futuro.