Il lavoro della diplomazia di Washington. Ma si teme che l’oltranzismo di Netanyahu possa vanificarlo
In Medio Oriente Biden segue il percorso cominciato da Trump, ma con qualche correzione importante. In queste ore riprenderanno i negoziati tra il governo israeliano e Hamas per una tregua di sei settimane, la liberazione di 33 ostaggi catturati dai terroristi, il rilascio di un numero imprecisato di detenuti palestinesi, l’afflusso più veloce degli aiuti umanitari a Gaza. Per l’Amministrazione Usa tutto questo rappresenta il passo iniziale di un piano politico più ampio. Con diversi obiettivi.
Nell’ordine: spezzare l’isolamento di Israele; consolidare un blocco di alleati arabi in grado di bilanciare l’influenza dell’Iran; arginare l’attivismo della Russia e soprattutto della Cina nella regione.
Prima del 7 ottobre 2023, il giorno dell’attacco di Hamas, Biden aveva ripreso la trama dei cosiddetti Accordi di Abramo, lasciata incompiuta dal suo predecessore. Trump, in combinata con il genero-consigliere Jared Kushner, favorì la conclusione di intese economiche bilaterali tra Israele ed Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e Sudan. Mancava, però, il fattore geo politico chiave: la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. La Casa Bianca ci ha lavorato per molti mesi, con l’appoggio sia dei democratici che dei repubblicani. Nel protocollo messo a punto con Riad, così come in quelli precedenti, non c’era alcuna traccia dei palestinesi. A Tel Aviv, Riad e Washington si pensava che sarebbero stati sufficienti un po’ di investimenti per blandirli.
Il 7 ottobre ha mandato in frantumi anche il nuovo assetto politico che stava prendendo forma. Da allora Biden si è mosso per ricostruirlo. Impresa difficile, affidata al suo Segretario di Stato. Dopo sette missioni nell’area, Antony Blinken sembra aver raggiunto dei risultati. Il leader saudita, principe Mohammed Bin Salman, ha tenuto a lungo in apprensione gli Stati Uniti. Nel giugno del 2023 ripristinò le relazioni con l’Iran, accettando la mediazione di Xi Jinping. Nel dicembre scorso accolse Vladimir Putin con grande calore a Riad. Due iniziative che hanno spinto Biden a rilanciare, accantonando le riserve nei confronti di Bin Salman, accusato dalla Cia di aver ordinato l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Evidentemente il principe saudita non aspettava altro. Il 12 e il 13 aprile 2024 l’intelligence di Riad ha aiutato israeliani, americani, britannici e francesi a intercettare i droni e i missili lanciati da Teheran.
E ora l’Arabia Saudita è pronta a firmare il suo «Accordo di Abramo» con Israele. Ma a una condizione irrinunciabile: questa volta il patto deve prevedere un itinerario «credibile» verso la costituzione di uno Stato palestinese. È interessante notare come i sauditi, pur continuando a concludere affari con Mosca e Pechino, alla fine abbiano chiesto e ottenuto da Washington protezione militare e assistenza tecnologica nel campo dell’energia nucleare a uso civile.
Adesso si teme che l’oltranzismo di Benjamin Netanyahu possa vanificare l’opera di Blinken. Il Segretario di Stato ha provato a convincere il premier israeliano: non c’è bisogno di entrare a Rafah, dove sono ammassati un milione e mezzo di palestinesi, per eliminare i militanti di Hamas. L’intelligence americana è pronta a collaborare per farlo, parole di Blinken, «in modo chirurgico». Ma se Netanyahu deciderà di procedere comunque, dovrà fronteggiare conseguenze pesantissime. Gli Usa limiteranno la fornitura di armi all’esercito israeliano, anche se è difficile immaginare un blocco totale. La Casa Bianca, inoltre, porterà avanti il disegno di stabilizzazione regionale. Secondo le indiscrezioni l’Arabia Saudita sarebbe disposta a firmare l’accordo con gli Usa sulla sicurezza, anche senza la partecipazione di Israele.Non basta. I bombardamenti di Gaza hanno ucciso circa 34 mila palestinesi: su Netanyahu pende il rischio di un’incriminazione da parte della Corte penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra. Biden, pur non riconoscendo l’autorità di quel tribunale, potrebbe decidere di non esporsi per difendere il premier israeliano. Ancora: il conflitto ha provocato danni nella Striscia per almeno 50 miliardi di dollari. Chi pagherà la ricostruzione? Tel Aviv non ha i mezzi finanziari. I Paesi del Golfo sono disponibili a farsene carico, ma a patto che Israele si ritiri da Gaza. Infine, gli americani avrebbero fatto notare a Netanyahu che cosa pensi la maggioranza dei suoi concittadini. Il 58% vuole che si dimetta immediatamente. Nello stesso tempo, e non era scontato, l’80% approva la strategia seguita da Biden.