21 Novembre 2024
vladimir putin

La Russia vorrebbe fare il mediatore nello scontro israeliano-palestinese, o almeno avere un ruolo. Ma sta capendo in fretta che difficilmente ci riuscirà

All’inizio del nuovo conflitto in Medio Oriente, la Russia rideva sotto i baffi. Non necessariamente quelli della buonanima di Stalin, in quest’ultimo anno oggetto di una rivalutazione che ha portato all’inaugurazione di nuovi monumenti a lui dedicati, l’ultimo della serie in un parco giochi per bambini di Orlov, nella regione di Kirov. C’erano comunque buone ragioni per giustificare l’ottimismo generale dei media che sempre riflettono e amplificano con zelo la voce del Cremlino. La strage perpetrata da Hamas ha distolto l’attenzione dall’Operazione militare speciale in Ucraina, e questo rimane senz’altro un dato di fatto
Venti giorni dopo quel tragico 7 ottobre, l’umore sembra essere cambiato. Come sempre accade quando le aspettative generali si scontrano con la realtà. «Pur di non farci rientrare in gioco sulla scena internazionale, l’Occidente ci sta tagliando fuori dai negoziati per evitare una nuova guerra tra Stati Arabi e Israele». Questo commento pubblicato pochi giorni fa dal quotidiano Izvestia, con la consueta chiave vittimistica da noi contro il mondo intero, o almeno una sua parte, riflette un senso di frustrazione divenuto ormai abituale, da quando la Russia è obbligata dagli eventi a prendere coscienza del proprio isolamento. La colpa è sempre degli altri, anche questo ormai è da dare per scontato.
La strategia è stata chiara fin da subito. Anche perché il ministro degli Esteri Sergey Lavrov non manca di ripeterla e di proporla ogni giorno. Nel conflitto Israele-Hamas, il Cremlino tenta di demonizzare quello che reputa essere un monopolio americano nello sforzo di sciogliere i nodi mediorientali, scaricando responsabilità pregresse e future su Washington e proponendo invece negoziati di pace per creare uno Stato palestinese vero e proprio . È una posizione quasi obbligata, mirata soprattutto a non creare attriti con l’Iran, in questo momento uno dei principali alleati di Putin.
La Russia vorrebbe fare il mediatore nello scontro israeliano-palestinese, o almeno avere un ruolo. Ma sta capendo in fretta che difficilmente ci riuscirà. Le sue risoluzioni all’Onu non passano. L’Occidente con a capo gli Usa non intende offrire alcuna sponda a Mosca. Finora, è così. Il viaggio di Lavrov a Teheran, in principio presentato come un momento decisivo per l’eventuale differimento di una nuova guerra mondiale, è stato subito derubricato come un importante incontro per la stabilizzazione del Caucaso, al fine di evitare una nuova spirale di violenza tra Armenia e Azerbaigian. Anche perché oggi Mosca non può permettersi un’altra guerra ai propri confini. Tanto meno l’Iran, impegnato in modo indiretto nel conflitto tra Israele e Hamas. Ma il ridimensionamento dell’ambizione appare evidente. Ne è prova ulteriore l’incontro avvenuto a Mosca con una delegazione di Hamas. Se l’unico interlocutore disponibile a parlare di Medio Oriente con la Russia è una organizzazione terroristica che rappresenta la causa principale di questa nuova guerra, sembra ben difficile che la soluzione della crisi possa passare anche dal Cremlino.
La visita di ieri rappresenta piuttosto la conferma dei timori coltivati di recente dagli analisti russi più avveduti. Una nuova arma americana si aggira infatti per il mondo. Non si tratta dei carri armati Abrahams promessi all’Ucraina, ma è qualcosa di più insidioso, che renderà «molto meno lineare» di quanto previsto al Cremlino il vantaggio geopolitico creato dall’attacco di Hamas. Il pericolo senza volto si chiama effetto TT. In una intervista alla Komsomolskaya Pravda lo sostiene Fiodor Lukyanov, presidente del Consiglio russo per la politica estera e di difesa, uno dei principali consiglieri di Lavrov, che obtorto collo riconosce all’odiato Joe Biden una certa abilità sul fronte diplomatico.
Il presidente americano, questa è la tesi, abbina in un unico discorso Ucraina e Israele, mettendo dall’altra parte Russia e Hamas, e creando l’immagine di un solo nemico: TT, tirannia e terroristi. «Conoscendo la psicologia della politica americana che ha bisogno di schemi semplici, non escludo che possa funzionare» conclude Lukyanov. «Se i due conflitti si legano insieme, il denaro per finanziarli sarà accordato dagli Usa sia all’uno che all’altro Paese». Ancora più perentori altri analisti sempre di stretta osservanza putiniana, che denunciano il tentativo americano di creare uno scontro generale tra «l’asse del male Russia-Iran-Hamas» contro «l’alleanza del bene» e guardano preoccupati alla Cina, che «nonostante gli sforzi del nostro presidente» si mostra finora di manica corta nell’aiuto per la costruzione di un nuovo mondo multipolare.
L’antica nozione che la Russia può esistere soltanto come grande potenza, altrimenti non esiste affatto, rappresenta il cuore del putinismo. Ogni volta che questa idea di sé stessi viene messa in discussione, la reazione è quasi sempre la stessa. Guardate che ci siamo anche noi, non potere permettervi di ignorarci. Il modo per ricordare al mondo il ruolo che Mosca si attribuisce, è sempre il solito. Due giorni fa, sotto gli occhi del presidente collegato da Mosca, il ministero della Difesa ha condotto nuovi test per simulare la reazione a un attacco nucleare, pochi giorni dopo l’uscita dal trattato che bandisce esperimenti e prove di questo genere. È quasi un riflesso automatico. Quando nel marzo del 2014 Barack Obama osò dichiarare che per lui la Russia era «una semplice potenza regionale», mandando su tutte le furie Putin, il Cremlino reagì enumerando il numero di testate nucleari in proprio possesso. Ma se il conflitto tra Israele e Hamas diventa l’unità di misura dell’irrilevanza russa nell’ambito delle relazioni internazionali, l’apparente insolenza di allora potrebbe diventare una verità definitiva. E per la Russia, i presunti vantaggi derivanti dall’attuale situazione in Medio Oriente si tramuterebbero in una sorta di disvelamento della nudità dello zar.

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