21 Novembre 2024
Meloni2

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Da quale strada sceglierà Giorgia Meloni dipendono la nostra (precaria) salute economica e il nostro futuro nell’Europa turbata dalla guerra che infuria sulle sue frontiere orientali

Sono quasi trent’anni che l’Europa si indigna, e sono quasi trent’anni che la destra più o meno populista è in maggioranza nelle urne (con l’effimera eccezione dei 24 mila voti in più di Prodi nel 2006), e quando è unita vince. Segno che l’indignazione non serve. Un po’ di preoccupazione, tuttavia, è legittima. Ora Giorgia Meloni è davanti a un bivio. Tra l’istinto e la ragione. Tra sovranisti ed europeisti. Tra protezionisti e liberali.
Da una parte, la strada che conduce alle sue alleanze tradizionali: Viktor Orban a Budapest, Jarosław Kaczyński a Varsavia, Marine Le Pen a Parigi, Santiago Abascal a Madrid. Dall’altra, la strada che conduce a chi governa davvero l’Europa: Ursula von der Leyen a Bruxelles, Christine Lagarde a Francoforte, Olaf Scholz a Berlino, Emmanuel Macron a Parigi (a Madrid governa invece il socialista Pedro Sanchez; che se dovesse perdere le elezioni l’anno prossimo cederebbe il posto non ad Abascal, ma al leader del partito popolare Alberto Núñez Feijóo).
Da quale strada sceglierà Giorgia Meloni dipendono la nostra (precaria) salute economica e il nostro futuro nell’Europa turbata dalla guerra che infuria sulle sue frontiere orientali. I sovranisti non sono un monolito. Il governo ungherese è il miglior amico di Putin; quello polacco è il miglior amico di Zelensky. Orban straparla di difesa della “razza bianca”; Abascal teorizza l’iberosfera, invita i venezuelani a venire in Spagna, candida i cubani anticastristi. Quanto a Marine Le Pen, tecnicamente in Europa fa parte del gruppo di Salvini e non di quello della Meloni. Tuttavia, non prendiamoci in giro: le radici e il cuore della prima donna presidente del Consiglio sono da quella parte.
Poi però c’è la realtà. C’è un Paese che veleggia verso i tremila miliardi di euro di debito pubblico, e non è fallito perché quel debito è di fatto garantito dai tedeschi, è posseduto per almeno il 10% dai francesi, è finanziato dalla Banca centrale europea, è alleggerito dal debito comune varato dalla Commissione di Bruxelles. Questo ovviamente non può e non deve piacerci. Però è l’amaro destino di chi ha tutti i record negativi d’Europa, di chi fa meno figli e ha meno abitanti al lavoro, di chi ha più evasori e più giovani che il lavoro non lo cercano, di chi non riesce a spendere soldi pubblici in cantieri, progetti, infrastrutture ma solo in sussidi. Un Paese così va profondamente cambiato.
Tutti ci auguriamo che la Meloni riesca dove centrodestra, centrosinistra, grillini hanno fallito. Tuttavia, c’è una sola cosa che un Paese così deve assolutamente evitare: rompere con l’Europa. Su molti temi, ma innanzitutto sull’Ucraina, sulla politica energetica, sulla tenuta dei conti pubblici. In campagna elettorale, a parte le sbandate degli ultimi giorni per Orban e Abascal, la Meloni ha dato assicurazioni su questi tre punti. Vedremo se ora sarà coerente. La scelta del ministro dell’Economia, da concordare con Sergio Mattarella, sarà il primo banco di prova.
È vero che Fratelli d’Italia ha raccolto un voto di protesta, antisistema. Ma ha anche raccolto il voto dei moderati che – come disse al Corriere Fedele Confalonieri alla vigilia della caduta di Draghi – hanno visto nella Meloni la leader in grado di riportare dopo undici anni il centrodestra a Palazzo Chigi . Dall’altra parte, anche l’Europa commetterebbe un grave errore a trattare l’Italia dall’alto in basso. Il passato dimostra che le interferenze non aiutano, semmai rafforzano lo spirito antieuropeo. L’ammonimento della von der Leyen alla vigilia del voto – “abbiamo gli strumenti…” -, e il rimbrotto della prima ministra francese Elizabeth Borne all’indomani – “vigileremo…” -, come se l’Italia fosse un Paese da tenere sotto tutela, rischiano di essere controproducenti. Anche Scholz e Macron hanno i sovranisti in casa. Spingere la Meloni in quella direzione non conviene neppure a loro. Al contrario, Berlino e Parigi hanno tutto l’interesse a costruire con il nuovo governo italiano un rapporto rispettoso e produttivo. Un segnale in questa direzione ieri Macron l’ha dato, ribadendo che, com’è ovvio, la Francia rispetta l’esito del voto italiano.
In fondo, alla Meloni non si chiede nulla di diverso da quello che ha sempre promesso: far valere l’interesse nazionale. E in questo momento l’interesse nazionale è dialogare in Europa, senza ricevere ordini ma anche senza pretendere di darne (altro che “è finita la pacchia”). Il modo migliore per prendere definitivamente le distanze dai fantasmi del passato, dal nazionalismo estremo, dal protezionismo, dal corporativismo, è un grande investimento sulla libertà. Libertà di intraprendere, di rischiare, di lavorare, anche di guadagnare di più, una volta adempiuti gli obblighi fiscali. Scommettere sugli italiani e sugli europei, non come due cose in contraddizione ma come due facce della stessa medaglia, è l’unica maniera che ha Giorgia Meloni per non fare la fine di Grillo, Renzi, Salvini e degli altri innamoramenti fugaci.

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