La premier annuncia la battaglia in Europa per rinviare il piano di transizione energetica voluto da Von der Leyen. L’intesa con Confindustria che chiede scadenze adeguate e politiche ambientali più morbide: “Rischiamo la débâcle”
Orsini alza la palla: «Il Green Deal è impregnato di troppi errori, la decarbonizzazione inseguita al prezzo della deindustrializzazione è una debacle», dice il nuovo presidente di Confindustria, alla sua prima assemblea. Meloni è lì per schiacciarla: «Lo ringrazio per essere stato chiaro sui risultati disastrosi frutto di un approccio ideologico, siamo impegnati per correggere queste scelte», risponde qualche minuto dopo sul palco dell’Auditorium, in un intervento fiume applauditissimo dalla platea. Confindustria è sempre filo governativa, ma la sintonia è coreografata ed evidente come mai in tempi recenti. Una consonanza quasi a tutto campo, che ha nell’opposizione alle politiche europee per la transizione il suo centro. Ed è con questa sponda industriale che ora Meloni vuole partire all’attacco del piano verde, simbolo della prima CommissioneVon der Leyen.
Un ripensamento è maturato anche a Bruxelles, dopo che alle ultime elezioni la destra populista ha sfondato cavalcando l’insofferenza e le paure crescenti per i costi della transizione. Ora anche il Partito Popolare spinge per rivedere il Green Deal, mentre Von der Leyen ha promesso che gli obiettivi ambientali saranno perseguiti lasciando alle imprese la scelta delle tecnologie, e con un piano industriale per sostenerle, ad oggi assente. Lo stesso rapporto Draghi raccomanda di conciliare decarbonizzazione e competitività: che finora non sia successo si vede soprattutto nel settore dell’auto, dove lo stop al motore termico nel 2035 si accompagna a vendite elettriche al palo e all’avanzata dei produttori cinesi, mettendo a rischio l’intera filiera.
«La storia e il mercato europeo dell’auto elettrica che stiamo regalando alla Cina parlano da soli», ha detto Orsini, chiedendo quando verrà annunciato lo slittamento di quella fatidica data 2035. «Non possiamo aspettare il 2026», ha risposto, dando il rinvio per scontato. Ma avvertendo che capitoleranno anche cemento, metalli e carta se il sistema europeo per prezzare le emissioni non verrà modificato.
Il primo banco di prova per l’assalto del governo al Green Deal sarà comunque l’auto. E a muovere sarà il ministro per le imprese Adolfo Urso, che ai colleghi Ue chiederà di aprire una discussione subito – e non nel 2026 come previsto dal regolamento – per rivedere tempi e modi del passaggio alle auto a batteria. Lunedì presenterà la proposta proprio a Confindustria e sindacati, poi la porterà in Europa il 26 al Consiglio competitività. Cosa chiede l’Italia? Rinviare il 2035. Ma si tratta dell’obiettivo grosso, e non è detto che il governo riesca a raggiungerlo, nonostante la crisi di produttori simbolo come Volkswagen renda il momento propizio. Von der Leyen infatti ha spiegato che, con tutti gli aggiustamenti del caso, il Green Deal resta un pilastro del suo programma e ha affidato il dossier alla vice presidente spagnola Teresa Ribera, ex ministra della Transizione del governo Sanchez, che appare poco propensa a concessioni. Meloni d’altra parte deve muoversi con cautela anche per non mettere in difficoltà Raffaele Fitto, che deve superare l’esame in Parlamento da neo commissario. Se alla fine le date restassero quelle di oggi, Urso ripiegherebbe chiedendo di creare un fondo europeo per la transizione, con risorse comuni per sostenere ricerca e investimenti dei costruttori Ue, la realizzazione di gigafactory e anche gli incentivi per chi acquista macchine a batteria.
«L’Europa confonde politiche ambientali autoreferenziali con politiche industriali per la crescita», ha detto Orsini. Nella sua relazione il presidente degli industriali ha evitato temi delicati come l’autonomia differenziata, su cui la base degli imprenditori è spaccata quanto il resto del Paese. Ha limitato al minimo le richieste in vista della legge di Bilancio: quella di «rendere permanente il taglio del cuneo fiscale» è quasi un pro forma, ben sapendo che i margini stretti permetteranno solo un altro rinnovo annuale. Ha insistito su un piano casa per i giovani lavoratori, su cui l’esecutivo ha già dato riscontri positivi, chiesto di accelerare lo sviluppo del nucleare, già in agenda, parlato di flussi migratori regolari da sostenere e di produttività da rilanciare. Una mano l’ha tesa pure ai sindacati, dicendosi pronto a discutere di sicurezza sul lavoro e retribuzioni. Ma il segretario Cgil Landini, come tutti, ha notato soprattutto la sintonia con Meloni: «Non vogliamo essere la parte che ascolta quello che il governo discute con Confindustria». Rischio concreto: «Vediamoci da subito – ha detto la premier agli imprenditori – dobbiamo camminare mano nella mano». Prima tappa: riscrivere il Green Deal.