La leader di Fratelli d’Italia ai suoi spiega: «Va bene farci carico dei candidati centristi»
Non è stato facile ottenere quella che appare come una piena vittoria, e non era nemmeno scontato. Perché da mesi Giorgia Meloni temeva che avrebbero «fatto qualsiasi cosa per fermarmi» e sapeva di avere solo due armi per difendersi da una possibile ghettizzazione. Una erano i voti veri, non solo i sondaggi (altissimi e sempre in crescita) che possono però oscillare. E le elezioni amministrative di maggio, che hanno fatto del suo partito il più votato fra quelli della coalizione anche in luoghi un tempo tabù, come il Nord a trazione leghista, sono state un’enorme spinta per creare un prima e un dopo.
L’altra arma era chiedere una cosa facile facile: «Il rispetto delle regole. Che non si cambiano se chi può vincere, stavolta, siamo noi. Perché noi le abbiamo sempre rispettate». Regole su premiership e divisione collegi. Tutte alla fine accolte secondo le sue richieste.
Così ieri, dopo una settimana in cui ha martellato la sua richiesta — «Come sempre è stato, chi prende un voto in più deve esprimere il premier, altrimenti è inutile stare assieme al governo» —, quando è arrivata al vertice aveva solo ancora una preoccupazione, quasi più scaramantica che reale: che FI insistesse su soluzioni alternative (appena abbozzate al vertice da Berlusconi, che è tornato a parlare timidamente di< «eletti» che decidano la leadership, ma subito da lei stoppato: «Bene, allora cominciamo a parlare di collegi, ecco qui i nostri numeri…»), che le si preparasse una trappola appunto sui collegi (e infatti quando le hanno proposto soluzioni non gradite, ha subito interrotto il summit), che si uscisse insomma ancora una volta con un nulla di fatto che significasse un no alla sua legittimazione che «non chiediamo, abbiamo, perché ce la danno gli elettori». In quel caso, sarebbe stata rottura: «Leggo di ipotesi di governo, di ministri, di pesi… Qui non si sa nemmeno se c’è una coalizione…», erano le sue parole due ore prima del vertice. E in fondo quello di correre da sola era il suo piano B, che fino all’ultimo la leader di Fratelli d’Italia non ha abbandonato.
Ma non è stata rottura. Che avrebbe devastato più gli alleati che il suo partito, avviato comunque probabilmente a diventare il primo in Italia, quindi essenziale o per fare un governo o per costringere gli altri a «un’altra ammucchiata». Lo sapevano sia Berlusconi che Salvini, non c’è stato nemmeno bisogno che lei lo ricordasse. Sul punto è stata intesa, come era logico accadesse. E anche sui collegi, almeno sulla carta, visto che il difficile sarà ora quali dare a chi. Perché «noi — ha detto Meloni ai suoi — ci siamo dimostrati generosi: potevamo chiedere di più, ma abbiamo accettato di venir loro incontro, ovviamente dopo aver scartato proposte o algoritmi inaccettabili. Tenere conto dei sondaggi di prima della caduta del governo Draghi ci sta, anche se allora avevamo numeri più bassi. E anche farci carico noi della maggior parte dei candidati centristi va bene, sia perché siamo il partito maggiore oggi, sia perché a differenza di quanto dicono siamo inclusivi e vogliamo accogliere anche i moderati nelle nostre liste. Esattamente come fa un partito conservatore, quale siamo».
Adesso si parte. Con una strategia, che va avanti da mesi e si accelera sempre più: il rapporto di reciproca legittimazione per la corsa alla premiership fra lei ed Enrico Letta. L’uno considera e definisce l’altro l’avversario da battere, in un bipolarismo nuovo che si sta costruendo anche senza formule scritte. Un modo quasi per escludere gli altri, e ci si aspetta che saranno loro due a ritrovarsi nelle prossime settimane in duelli e faccia a faccia. Non con altri leader, ma una partita a due. Non è un caso che ieri sera Letta abbia subito commentato: «Oggi è un giorno importante per la storia e la politica italiana perché Berlusconi e Salvini hanno deciso di consegnarsi definitivamente nelle mani della Meloni. È una scelta che conferma quello che abbiamo detto dall’inizio di questa campagna elettorale e cioè che sarà un confronto e una scelta che gli italiani dovranno fare tra noi e la Meloni».
Ma Giorgia Meloni dovrà lavorare anche sulle candidature interne per la competizione elettorale, ed esterne. Perché la leader di FdI sa che il punto su cui verrà attaccata, come già sta accadendo, è non solo quello tradizionale di una provenienza di destra post-fascista, che lei rifiuta e respinge con tutte le forze, ma anche di una classe dirigente non all’altezza.
Lei contesta una ricostruzione che trova «falsa e bugiarda», darà spazio ai fedelissimi, ai big, ad amministratori, giovani ma anche a nomi fuori dal recinto del partito. Già alla Convention di Milano dell’aprile scorso sono stati ospitati esponenti dell’industria, delle professioni, della diplomazia, dell’università, dei sindacati d’area. Guardando anche al governo e sapendo che non c’è una mossa che possa permettersi di sbagliare, per non sprecare un vantaggio che ad oggi sembra incolmabile.