La leader di FdI deve tutto agli elettori ma dovrà sottostare alle regole di un regime parlamentare tenendosi buoni gli alleati concordando ministri e sottosegretari
Man mano che si dirada la nebbia della battaglia elettorale, il sole illumina la realtà sul terreno. Eserciti decimati festeggiano lo scampato pericolo: il M5S ha perso 6,4 milioni di voti, Forza Italia ne ha persi 2,3 milioni, ma a Conte e Berlusconi non pare vero di aver evitato il peggio. Salvini, un altro «perdente di successo» abbandonato da 3,2 milioni di elettori, intasca grazie al Rosatellum la bellezza di 95 parlamentari, appena 14 in meno del Pd, che pure ha avuto il doppio dei voti (e ne ha persi «solo» 800 mila). Forte della sua «sconfitta», la Lega chiede ora ministeri di peso.
Se guarda a ciò che è davvero successo nelle urne, la presidente del Consiglio in pectore dovrà dunque riconoscere che nel centrodestra ha vinto solo lei (quasi 6 milioni di voti in più); che la coalizione nel complesso ha più o meno gli stessi elettori di cinque anni fa (anche se con molti meno votanti); e che ha vinto anche per grazia ricevuta dagli avversari, che si sono divisi in tre tronconi (la politica non si fa con i «se», ma la somma dei tronconi supera il 48%, quattro punti in più del centrodestra).
Mentre si alza la nebbia si vede meglio anche il ruolo che ha avuto, o non ha avuto, Draghi. Una prima superficiale analisi aveva fatto dire a molti: hanno vinto quelli che si sono opposti al suo governo, ergo ha perso lui. Ed è vero che Fratelli d’Italia era l’unico partito all’opposizione. Ma forse l’ha gestita con tale astuzia da apparire negli ultimi mesi anche come il partito più affidabile per proseguire il lavoro del governo. Sulla guerra, le sanzioni alla Russia, la crisi energetica e la disciplina di bilancio, Giorgia Meloni ha preso puntualmente le difese di Draghi, anche rispetto agli alleati. E ora il suo «transition team» funziona d’amore e d’accordo con il governo uscente.
D’altra parte, se è corretto dire che Conte si è giovato dell’uscita dal governo, recuperando da sondaggi catastrofici fino ad un accettabile 15,5%, lo stesso non si può dire della Lega. A luglio era data intorno al 14% e ha finito invece all’8,77%, pur dopo aver buttato giù l’esecutivo insieme a Berlusconi e aver provocato le elezioni anticipate.
Con quella lettura del voto non si spiegherebbe neanche il fatto che — secondo le rilevazioni di Pagnoncelli — il gradimento per Draghi è cresciuto dopo le dimissioni, addirittura di sette punti, arrivando al 63%. Insomma: la sua «agenda», sventolata come un simbolo da Calenda e Renzi, non ha certo vinto le elezioni. Ma il suo «metodo» si è rivelato vincente anche dal punto di vista del consenso: distacco dalla lotta politica e sguardo fisso sui problemi del Paese.
Se queste due analisi su vincitori e sconfitti sono giuste, che conseguenze ne può trarre Giorgia Meloni?
La prima è che il centrodestra è certamente la sua maggioranza parlamentare, ma il suo destino è nel rapporto con il Paese, che ha premiato di fatto solo lei, facendo un investimento su una leader nuova e giovane. Non deve dunque niente a nessuno, perché nessuno le avrebbe mai dato Palazzo Chigi, se solo avesse potuto. Deve invece tutto agli elettori, milioni dei quali non provengono dalla sua tradizione politica (cinque anni fa aveva appena il 4%), anche se non l’hanno ritenuta un ostacolo.
Questo vuol dire che dovrà certamente sottostare a tutte le regole di un regime parlamentare: concordare i ministri, concedere sottosegretari, tenersi buoni gli alleati. È la politica democratica, bellezza, e perfino il «marziano» Draghi ne ha tenuto conto. Però, allo stesso tempo, dovrà anche dimostrare di governare in nome di qualcosa di più grande, di essere libera dai condizionamenti di parte, di avere l’interesse generale nel mirino. A partire dalla scelta dei ministri: può diventare la solita solfa dei governi cosiddetti «politici», un tanto a te e un tanto a me, che finisce per premiare nomi senza l’esperienza e la qualità che la funzione richiede, e con l’unico merito di essere fedeli a un capo-partito. Oppure può diventare un modo per parlare al Paese, per dare una prova di serietà e responsabilità all’interno e all’esterno, sfruttando appieno le prerogative costituzionali del capo del Governo (che propone i nomi), e del presidente della Repubblica (che li nomina). In questo momento Giorgia Meloni può permetterselo.