19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Wolfgang Münchau

Se si applicasse il meccanismo delle geometrie variabili non ci sarebbe nessuna crisi dell’eurozona e nessuna Brexit. Ma se la zona euro deve puntare a una maggiore integrazione, l’Unione Europea farebbe meglio a sbarazzarsi di molti vincoli


Catone il Censore soleva concludere tutti i suoi discorsi nel Senato romano invocando la distruzione di Cartagine. I miei articoli saranno apparsi forse ugualmente irritanti per la loro fastidiosa ripetitività: che alla zona euro occorre una maggiore integrazione, mentre l’Unione Europea dovrebbe rinunciare a molti dei suoi paletti. Non ci sarebbe stata nessuna crisi dell’eurozona se l’unione monetaria fosse stata accompagnata, sin dall’inizio, da un abbozzo di unione fiscale e bancaria. Non ci sarebbe stata nessuna Brexit se l’Unione Europea avesse offerto al Regno Unito una forma di partenariato svincolato dall’impegno verso una sempre maggior integrazione. Certamente non ci sarebbe, oggi, nessuno stallo con Ungheria e Polonia, poiché nessuno di questi due paesi potrebbe ricattare tutti gli altri membri su questioni di bilancio europeo.
Il mio fondamentale disaccordo con Angela Merkel si basa proprio su questo argomento: la cancelliera ha sempre dato la precedenza alla coesione interna dell’Unione, ostacolando l’integrazione della zona euro. E tutto trae origine da molto lontano. Dopo il crollo della Lehman Brothers nel 2008, Merkel ha respinto una soluzione alla crisi bancaria ristretta alla sola zona euro, e inizialmente ha addirittura rifiutato la proposta di indire vertici specifici riservati a questa. Quasi tutte le crisi che si innescano nell’Unione Europea derivano dalla fatidica decisione di ridurre al massimo le geometrie variabili. E, come Catone, anch’io continuo a ripetere le stesse cose.
La questione si sta facendo scottante ancora una volta, con il veto di Polonia e Ungheria per bloccare l’espansione delle risorse comunitarie, condizione indispensabile per l’erogazione del recovery fund. Questa crisi era prevedibile, ed era stata prevista. La soluzione da me proposta (https://www.eurointelligence.com/column/enhanced-cooperation) la scorsa settimana, raccomanda il ricorso alla cooperazione rafforzata, da parte dell’Unione, per affrontare la situazione. Ma non ho alcun dubbio che Merkel respingerà questo approccio. D’altronde, lo ha sempre fatto anche in passato.
La situazione di stallo venutasi a creare sul bilancio dell’Unione Europea è un severo richiamo al fatto che integrazione e disintegrazione vanno spesso a braccetto. Ricordiamo che fu il veto di David Cameron al fiscal compact a innescare la catena di eventi sfociati nella Brexit. Il veto polacco-ungherese potrebbe fare altrettanto. Quando Cameron si oppose al fiscal compact, gli altri stati membri uscirono dal trattato e lanciarono il nuovo regime fiscale come accordo intergovernativo. La storia, certo, non si ripeterà pedissequamente, ma le analogie balzano agli occhi.
Come il Regno Unito, Polonia e Ungheria non hanno nessuna intenzione di adottare l’euro e il dibattito, in questi due paesi, si è fatto sempre più nazionalistico ed euroscettico. Invito tutti coloro che considerano la Brexit una tragedia ad ascoltare Sir Ivan Fallon, ex ambasciatore britannico all’Unione Europea (https://tv.spectator.co.uk/event/the-week-in-60-minutes-with-andrew-neil—26th-november). Di recente Fallon ha affermato che il suo paese avrebbe quasi certamente posto il veto al bilancio europeo attuale, se fosse rimasto all’interno dell’UE. E la questione sarebbe stata affrontata in modo simile anche sotto un governo laburista «pro-europeo». L’UE avrebbe potuto risolvere l’impasse iniziale con Cameron offrendo al Regno Unito una soluzione alternativa: un accordo di partecipazione al mercato unico e all’unione doganale, accompagnata da una piena co-decisione politica all’interno di quel livello di integrazione. Polonia e Ungheria avrebbero potuto optare per questo livello, che sarebbe stato esteso anche a tutti gli stati membri esterni all’eurozona. Non è necessario che questa stratificazione resti statica, come nella contrapposizione tra centro e periferia, e si potrebbe ipotizzare anche una sovrapposizione di certi livelli. È tuttavia una struttura che presuppone una serie di principi di base condivisi da tutti.
L’Unione Europea, però, ha sempre respinto le geometrie variabili perché teme la perdita di coesione. Una perdita, comunque, si è già verificata. I sostenitori di un’integrazione ancor più stretta hanno spesso valutato male le dinamiche dell’unione monetaria, e cioè che questa può innescare crisi che generano tremende ripercussioni sul piano umano, a meno che non si metta in atto anche un’unione fiscale e bancaria, e inoltre un sistema previdenziale per la disoccupazione. Già sono in cantiere le prime versioni di tutti questi strumenti, ma nessuno di essi può dirsi ancora efficace e funzionante.
Il sistema bancario europeo oggi appare molto più nazionale di quanto lo fosse vent’anni fa. Fintanto che il recovery fund resta ancorato al bilancio UE, è destinato a rimanere irrilevante, sotto il profilo macroeconomico, mentre avrebbe dovuto essere un progetto rivolto all’eurozona sin dall’inizio. In assenza di un’ulteriore integrazione della zona euro, gli squilibri interni si accentueranno. Così com’è concepita oggi, la zona euro resta semplicemente insostenibile.
Gli autori del Trattato di Lisbona avevano saggiamente introdotto la cooperazione rafforzata come strumento privilegiato per favorire l’integrazione dell’eurozona, strumento che non è stato ancora messo alla prova a quello scopo. La prossima revisione del trattato ci offre l’occasione buona per attuarlo in tutta l’UE: si potranno così individuare strade opportune per accogliere anche gruppi di stati membri con posizioni divergenti, introducendo livelli sovrapposti di integrazione e di coinvolgimento politico.
Il commiato di Angela Merkel dalla politica e l’attuale crisi di bilancio aprono uno stretto spiraglio di opportunità per prendere provvedimenti adeguati.

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