19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

merkel

di Sergio Romano

In queste elezioni tedesche esiste un’incognita. Conosciamo bene gli sconfitti, ma conosciamo male i vincitori

Sappiamo chi ha perduto le elezioni regionali tedesche. Il voto non avrà una immediata influenza sul governo della Repubblica federale, ma punisce Angela Merkel e il partito social democratico, vale a dire la coalizione che ha governato la Germania dal dicembre del 2013. Punisce Merkel perché la sua politica sull’immigrazione non è piaciuta a una parte dell’elettorato moderato dei cristiano-democratici; e punisce la Social Democrazia perché alle sue correnti più radicali, in questa fase, è sembrata troppo conciliante e remissiva. La cancelliera è troppo abile perché una sconfitta regionale la costringa a uscire di scena. Ma è troppo accorta e calcolatrice per proseguire sulla sua strada senza correzioni di rotta. Vi saranno cambiamenti e questi non concernono l’Europa meno di quanto concernano la Germania. Fin qui siamo su un terreno conosciuto. L’Europa si fa a Bruxelles e nei vertici europei. Ma ogni governo governa grazie ai voti conquistati nei propri seggi elettorali. Esiste uno spazio politico europeo in cui tutti si condizionano a vicenda, ma i governi nascono e muoiono nei Parlamenti nazionali. È un quadro imperfetto e scomodo, ma ne conosciamo le regole.

In queste elezioni tedesche, tuttavia, esiste un’incognita. Conosciamo bene gli sconfitti, ma conosciamo male i vincitori. AfD (Alternative für Deutschland) fu creata fra il 2012 e il 2013 da economisti euro-scettici, spesso convinti che la nascita della moneta unica fosse un errore.

Per coloro che credono nell’unità dell’Europa non fu piacevole constatare che il virus dell’euroscetticismo aveva trovato alloggio anche nella società tedesca; ma il fenomeno era europeo e, quindi, non sorprendente. Nel 2015, tuttavia, AfD ha cambiato pelle e ha oggi un nuovo leader, la signora Frauke Petry, che ha approfittato della politica accogliente di Angela Merkel per conquistare l’elettorato xenofobo, e che si esprime sull’immigrazione con parole non troppo diverse da quelle di Donald Trump nella gara presidenziale americana.

Anche questa evoluzione di un partito politico non dovrebbe sorprenderci. Xenofobia e islamofobia, con il loro colorito linguaggio razzista, sono patologie europee che hanno infettato recentemente persino i Paesi scandinavi. Dopo una lunga fase in cui l’Europa andava orgogliosa del proprio multiculturalismo, il pendolo sta oscillando nella direzione opposta. Ma i segnali che non sono preoccupanti, quando arrivano dalla Danimarca, dall’Olanda e dalla Finlandia, sembrano a molti preoccupanti quando arrivano dalla Repubblica Federale. A 71 anni dalla morte del Terzo Reich la Germania è ancora, periodicamente, un sorvegliato speciale che deve rendere conto delle proprie azioni. È giusto riservare alla Germania un trattamento così diverso da quello che adottiamo verso Paesi che hanno fatto lunghe esperienze autoritarie? Esiste certamente in Germania una destra radicale, becera, grintosa e marziale, che non ha mai smesso gli stivali e il gusto per la forza. Ma queste caratteristiche sono minoritarie, visibili anche altrove e soprattutto guardate a vista da istituzioni democratiche che hanno imparato la lezione della Repubblica di Weimar, uno Stato democratico che non seppe tenere a bada i suoi nemici interni. Il Centro per la protezione della Costituzione, gestito dall’Intelligence, il Tribunale costituzionale, la Banca federale e i due rami del Parlamento hanno sempre dato prova di grande vigilanza democratiche. Non è giusto pensare che queste elezioni, da cui esce comunque una maggioranza democratica, siano destinate a cambiare il volto del Paese.

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