20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

L’immagine del papà e della bimba morti in Messico ricordano quella di Alan, e come quella colpiscono. Ma l’emozione dura poco: da che cosa sarà seguita?

Ci sono immagini che sembrano coltellate, che ti lacerano, che innescano una profonda tristezza chiamata emozione. Come non provare orrore, davanti a questo padre e alla sua bambina affogati in un fiume di confine tra Messico e Stati Uniti, a faccia in giù come il piccolo siriano Alan portato dalla corrente sulla spiaggia turca di Bodrum nel 2015. Ma le emozioni, anche davanti agli scatti più terribili, non colpiscono quasi mai la sfera della razionalità, del pensiero, dell’iniziativa, e per questo durano poco. Per questo, rimarginata la ferita, ci affrettiamo a rientrare nel nostro quotidiano.
Che orrore, anche questo. Possono durare così poco, i nostri valori? Può essere a tal punto egoista, la nostra vita ben protetta? Il dibattito è antico. Per alcuni la prima cosa da difendere è la nostra democrazia, e una immigrazione incontrollata la metterebbe in crisi favorendo svolte autoritarie sancite dalle urne. Per altri i valori di tolleranza e di accoglienza vengono prima dei sistemi politici. Per altri ancora, e noi siamo tra questi, esistono sempre vie che possono essere percorse. Ma per provarci, per porsi soltanto il problema dell’azione davanti alle sfide globali, servono qualità che non tutti i politici e non tutti i popoli hanno.
I rigoristi fautori dei «muri» citano volentieri l’esempio di Angela Merkel. L’esempio di uno slancio emotivo che in politica è finito male, dicono. Ma il giudizio potrebbe presto cambiare, perché la Germania trasforma i rifugiati in risorse economiche, in nuova manodopera, e organizza l’insegnamento della lingua, l’inserimento sociale. Si chiama integrazione. Donald Trump non sembra essersi posto questi problemi. Ha promesso un muro contro i centro-americani e un muro esige prima delle elezioni del novembre 2020. Negli Usa, era ora, è scoppiato lo scandalo dei bambini non accompagnati che i servizi federali fanno vivere in condizioni oltraggiose. Ma Trump non cambierà rotta. A lui interessano le elezioni e i problemi americani, non quelli globali.
Il nostro trumpismo lo abbiamo anche noi, e le divisioni europee non aiutano le azioni comuni. Ma superare le prese di posizione strumentali che conosciamo (mentre centinaia di migranti arrivano nel silenzio con piccole imbarcazioni) diventa possibile soltanto in presenza di una forte volontà indipendente dalle immagini strazianti. I «nostri» migranti giungono in massima parte dalla Libia. Ebbene, chi ricorda che in Libia si combatte e si muore ogni giorno? Quali iniziative abbiamo preso, noi che siamo i primi interessati? Abbiamo per caso cercato seriamente di fermare i rifornimenti di armi alle parti, beninteso in accordo con Paesi più influenti di noi? Non domina l’impotenza, oppure il disinteresse? Eppure in una Libia senza spari un piano efficace potrebbe forse essere concepito. L’Onu potrebbe assumere la sorveglianza di quei «campi» dove i futuri migranti vengono spesso torturati. Percorsi legali di immigrazione potrebbero essere creati, limitati nei numeri e sorvegliati. Una politica di integrazione potrebbe nascere, in una Italia che continua ad invecchiare. Nuovi accordi per i rimpatri potrebbero essere conclusi.
Quel papà e quella bimba non sono morti sull’uscio degli Usa, sono morti anche a Lampedusa, anche in Turchia come Alan, anche sulle coste siciliane. Spetta a noi la scelta tra emozioni brevi e volontà tenaci.

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