22 Novembre 2024

Dopo la fatica fatta per creare spazio attorno al desiderio delle donne di avere un’occupazione regolarmente retribuita, si è capito che il lavoro femminile accresce la produttività e moltiplica le opportunità, pubbliche e private  

Rivoluzione silenziosa. L’ha chiamata così Claudia Goldin, premio Nobel 2023 per l’Economia. È quella delle donne verso il lavoro. In epoca pre-rivoluzionaria, durata secoli (e secoli), non appena una donna approdava al matrimonio – e quindi, naturalmente, ai figli – “rientrava”. A casa. Era un patto condiviso, apparentemente aveva senso per tutti. Per le madri, che avrebbero – appunto – fatto le madri e su quel ruolo sarebbero state giudicate. Per i bambini, che non sarebbero stati affidati a “estranei”. Per i padri: è dimostrato che se lo sono (padri) gli uomini fanno più carriera. A un certo punto, però, questo schema di gioco – maschi in attacco, difesa del focolare consegnata alle donne – ha smesso di funzionare. Perché la parte femminile della popolazione, avviata a chiudere in fretta e poi a sotterrare il divario culturale, ha cominciato a spingere. A chiedere di restare anche fuori. Mia madre, per esempio, l’ha fatta, questa rivoluzione, e io quasi non me ne sono accorta. Quando sono nata, secondogenita a distanza ravvicinata, lei era un’insegnante non ancora di ruolo e navigava nell’incertezza delle supplenze: mi affidò, in parte, ai nonni – 1200 chilometri di separazione. Determinata a riprendermi, a Milano, una volta giunto il tempo in cui i suoi punteggi in graduatoria e l’inizio della mia scuola elementare si sarebbero allineati. Lo capisco soltanto adesso, che è stata questa la sua scommessa. E che ha funzionato, per me e spero per lei, ora che non posso più ringraziarla per aver seminato – con quella scelta, pesante – il terreno della mia indipendenza di futura lavoratrice e madre. Erano gli anni Sessanta, non dovrebbe più succedere.
Questo movimento non è bastato a indurci a riflettere su quanto fatica abbiamo fatto come Paese per creare spazio attorno al desiderio delle donne di avere un’occupazione regolarmente retribuita. Che avrebbe, tra altre cose non secondarie, gettato le basi di quell’indipendenza economica tuttora stentata (il 21% delle italiane non ha un conto corrente proprio) e precaria (poco più di una su due ha un contratto, spesso part time).
Come mai oggi l’occupazione femminile ha scalato finalmente l’agenda nazionale di politici, economisti, demografi? Abbiamo forse compreso quanto fosse ingiusto (e poco “naturale”) dividerci, con l’accetta di genere a spaccare il legno del Dna, tra “breadwinner” – maschi, ex cacciatori, destinati a procurare carne & pane – e “caregiver” – femmine sospinte verso la cura di bambini, anziani, appartamenti e Pianeta?
No, la carica che ha fatto detonare l’emergenza non è stato tanto il rumore a bassa frequenza delle lavoratrici, intercettato da Claudia Goldin, quanto la denatalità: il timore che quei figli non nati facciano saltare gli equilibri del welfare, delle pensioni, della nostra sopravvivenza così come siamo e ci immaginiamo per sempre. Alla categoria del “giusto”, si è sostituita (più che accompagnata) quella della necessità.
A fine Novecento, accostando i dati, abbiamo verificato come il rapporto lavoro/fertilità si fosse capovolto rispetto a previsioni e pregiudizi: nei Paesi ad alta occupazione femminile sale anche il numero di bambini messi al mondo. E viceversa: chi non lavora non fa figli. Fine del mito secondo cui le italiane “preferiscono” occuparsi esclusivamente della famiglia e non “esternalizzare” – parola già in odore di colpevolezza – una parte del peso.
Dice sempre Claudia Goldin che «le nuvole si stanno aprendo». Infiliamoci allora nella breccia che spezza i luoghi comuni dove l’inerzia ci trattiene, promettendo conforto. Lasciamo che le motivazioni (i diritti intrecciati a obiettivi socioeconomici e demografici) si fondano in un comune attivismo per l’equità. Il lavoro femminile accresce la produttività di vari punti e la competizione per titoli; moltiplica le opportunità individuali, pubbliche e private. Teniamo, in tutto questo, lo sguardo fisso sulla traiettoria degli investimenti. Le risorse andrebbero concentrate, a monte, sul lavoro delle donne – affinché per le imprese non ci sia un “rischio maternità” – e poi, a valle, su servizi strutturati attorno ai bambini – la spesa pubblica per l’infanzia in Italia è rimasta la più bassa in Europa. Meno trasferimenti sparsi e dispersi, piuttosto una dote flessibile affidata ai genitori.
Siamo approdati, noi, donne e uomini, a una strettoia della Storia. Dobbiamo passarci, veloci. E sbucare dall’altra parte, insieme.

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