Saggezza civile vorrebbe una riflessione più accurata della posta in gioco e di quanto certe uscite violente, certi strappi minacciati, facciano probabilmente del bene alla propria parte elettorale e sicuramente male al Paese
Ancora una volta sulla pelle dei migranti, e come sempre a loro insaputa non avendo né diritti riconosciuti né udibile voce, si combatte un’aspra battaglia della quale non si sentiva il bisogno. Il fronte principale è in apparenza l’Albania, con 12 «maschi maggiorenni non vulnerabili» prima spediti laggiù e poi subito richiamati indietro dal tribunale di Roma. Il governo, che aveva pensato di dare così un segno tangibile della sua incrollabile volontà di fermare la marea inarrestabile di chi si ostina a sbarcare, non ha gradito, eufemismo, questo stop e programma già per oggi un Consiglio dei ministri urgente.
Al centro della questione, c’è il tema di quali siano i «Paesi sicuri» dove rispedire senza più problemi chi ha scelto inopinatamente di fuggirne. La Corte di Giustizia europea ne ha appena ridefinito i criteri (Egitto e Bangladesh, da cui provenivano i 12 sbarcati a Shengjin, non rientrano nel novero delle nazioni a diritti rispettati, come ben sapeva chi li ha imbarcati). Questi criteri sono però variamente interpretabili e come tali saranno ridefiniti dal governo Meloni con un decreto che estenderà d’arbitrio la lista dei «sicuri», con lo scopo dichiarato di meglio blindare i Paesi d’approdo come appunto il nostro.
E l’Europa, di cui siamo parte? Aspetta guardinga la mossa italiana, non gradendo soluzioni non concordate. Ma essendo la questione molto spinosa anche per Bruxelles, si troverà un qualche compromesso, magari più avanti, a primavera, rivedendo l’ultima e recentissima sentenza della Corte di Lussemburgo in materia. D’altronde, l’aria che tira va proprio in quella direzione: nell’ultimo Consiglio Ue, i leader dei 27 hanno condiviso una stretta sui rimpatri e un favore diffuso per «soluzioni innovative», formula tra cui rientrano i centri al di fuori del territorio dell’Unione.
Ma la verità è che il molto costoso (800 milioni di euro), e al momento fallimentare, caos albanese sta diventando il pretesto per una ridefinizione dei confini non tanto tra Italia e resto del mondo, quanto all’interno dei poteri che garantiscono la nostra democrazia. Alcuni vertici dell’Esecutivo sono partiti lancia in resta contro la Magistratura, cioè il potere giudiziario, con toni e soprattutto argomenti che destano qualche preoccupazione. Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: «È molto difficile dare risposte alla Nazione quando si ha l’opposizione di parte delle Istituzioni». Il presidente del Senato, Ignazio La Russa: «Il verdetto del giudice di Roma mi stupisce ma non mi sorprende. Penso che vada stabilita in modo chiaro la perimetrazione delle rispettive funzioni».
Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio: «La magistratura esonda, attribuendosi prerogative che non può avere, e allora la politica deve intervenire». Il ministro dei Trasporti e vice presidente del Consiglio, Matteo Salvini, in un’intervista al Tg1 delle 20, cioè il programma informativo più seguito di tutto il palinsesto: «C’è qualche giudice che pensa di essere in un centro sociale più che in tribunale. Mi sembra evidente che c’è una parte della magistratura che fa pesantemente politica di sinistra». Per concludere con un affondo piuttosto brutale: «Se qualcuno di questi 12 stupra, rapina, uccide qualcuno, chi paga le conseguenze? Il magistrato che li ha riportati in Italia?» La frase, incommentabile, è l’ideale prolungamento di quanto detto dall’avvocato difensore di Salvini, Giulia Bongiorno, nel processo di Palermo istruito contro il suo assistito per la vicenda Open Arms: «Quella nave bighellonava in mezzo al mare». Per 19 giorni, 147 profughi, praticamente una crociera. E comunque a sostenere il leader leghista, per cui la procura ha chiesto sei anni di carcere per sequestro di persone, c’erano quattro ministri in carica (Giorgetti, Valditara, Calderoli, Locatelli) e una folta schiera, specie sui social. Processo ad alto rischio, in ogni senso, anche per chi l’ha istruito, cioè i tre magistrati della procura di Palermo, adesso sotto scorta per insulti e minacce.
Delle tante frasi altamente infiammabili ascoltate in questi giorni, la più ambigua, e insieme la più carica di sviluppi per la tenuta dell’architettura democratica di questo Paese, è quella che sottende tutte quelle fin qui riportate: «E comunque, alla fine, è il popolo sovrano che decide». E siccome il popolo sovrano ha votato in maggioranza per chi ha giurato di tenere alla larga dall’Italia il popolo stracciato e indesiderato di «barchini e barconi», la magistratura deve prenderne atto. Se la legge italiana, quelle europee e internazionali, non sono allineate al nuovo volere, si sta già lavorando per cambiare norme e codici. Intanto i giudici si adeguino per tempo, non ostacolino chi ha conquistato legittimamente il potere e quindi ha il dovere di mantenere le promesse fatte alla Nazione.
La forzatura sulla questione albanese, in palese dispetto della normativa europea, potrebbe essere solo uno degli esperimenti all’interno di un disegno più grande. Disegno che sembra avere come fine una riconfigurazione degli equilibri su cui è nata la Patria democratica: invece di governare per tutti, come Costituzione vorrebbe, chi vince le lezioni prende tutto e redistribuisce gli altri poteri, Legislativo e Giudiziario, rimodellandoli in forma ancillare, ausiliaria, del potere primo, quello Esecutivo. Quanto al Presidente della Repubblica, ci penserebbe il premierato, per ora solo annunciato, a sminuirne il ruolo di garante, oltre che della Legge, anche dell’autonomia dei tre pilastri fondamentali del nostro ordinamento.
Saggezza civile vorrebbe una riflessione più accurata della posta in gioco e di quanto certe uscite violente, certi strappi minacciati, facciano probabilmente del bene alla propria parte elettorale e sicuramente del male a un Paese che, in un momento complicato e con gli occhi dell’Europa addosso, avrebbe un disperato bisogno di altro. Per esempio, come scriveva ieri nell’editoriale Ferruccio de Bortoli, di immigrati nelle aziende, che gli imprenditori vorrebbero salvo poi sostenere che, certo, una società multietnica non è desiderabile.