La vulnerabilità rispetto agli arrivi dipende dalla posizione geografica: più alta per i Paesi del Sud, Italia e Grecia in testa. Quindi è diverso l’approccio al problema
Seppure con molte difficoltà, le crisi dell’ultimo quindicennio (euro, Brexit, pandemia) hanno portato a un significativo rafforzamento della solidarietà europea. Ricordiamo il sostegno ai Paesi in difficoltà da parte della Banca centrale europea o la compattezza con cui Bruxelles ha gestito la Brexit, tutelando l’interesse comune Ue. E pensiamo al Next Generation Eu, l’ambiziosa strategia per la ripresa e la resilienza, con le sue sovvenzioni a fondo perduto finanziate da debito comune.
L’unica crisi che non ha sinora trovato uno sbocco unitario è quella migratoria. Deflagrata nel 2016 con la massiccia ondata di profughi siriani, l’emergenza non si è mai risolta: tutti gli sforzi per gestire i flussi tramite un sistema integrato a livello europeo sono miseramente falliti. Nel 2020 la Commissione europea ha proposto un Patto sull’immigrazione: procedure uniformi e più rapide alle frontiere esterne, condivisione degli oneri tramite i ricollocamenti cross-nazionali e cooperazione con i Paesi di origine. Dopo l’invasione di Putin, la buona gestione dei rifugiati ucraini faceva ben sperare. Invece l’accordo di giovedì scorso fra i ministri degli Interni si è limitato a pochi e modesti ritocchi del sistema attuale.
L’unica innovazione è un embrionale meccanismo di solidarietà, che prevede una quota di ricollocazioni obbligatorie oppure — se un Paese è contrario — il versamento di ventimila euro per ogni migrante rifiutato.
Perché è così difficile raggiungere una soluzione comune? L’immigrazione sfida un elemento costitutivo dello Stato moderno: il potere di controllare chi entra nello spazio nazionale e può goderne i benefici (diritti, lavoro, welfare). L’integrazione europea è riuscita nel tempo ad abolire quasi interamente le frontiere interne e a liberalizzare la circolazione di merci, capitali, servizi e persone. Per spostarsi in Europa i nostri nonni dovevano chiedere il visto, i nostri figli non si accorgono nemmeno di attraversare le linee di confine entro l’area Schengen, e quando si trovano in un altro Paese Ue hanno gli stessi diritti dei nativi. Raggiungere questo risultato straordinario non è stato facile. Lo ha mostrato la Brexit: gli inglesi l’hanno appoggiata perché impauriti dalla supposta «invasione» di cittadini est europei (polacchi, rumeni) dopo che i loro Paesi erano entrati nella Ue fra il 2004 e il 2007.
A differenza di quelle interne, le frontiere esterne restano sotto il controllo degli Stati membri. Per i cosiddetti migranti economici e i profughi extra-comunitari sono ancora i governi a manovrare le «sbarre» d’ingresso. Con l’incremento dei flussi, l’immigrazione extra-Ue è diventata un tema chiave della competizione fra partiti, e alcuni di essi continuano ad agitare opportunisticamente gli spettri del nazionalismo etnico.
Oltre agli ostacoli di natura politica e culturale, nel campo dell’immigrazione la cooperazione europea deve affrontare un secondo problema. La vulnerabilità rispetto agli arrivi dipende dalla posizione geografica. È bassa per i Paesi del Nord e del Centro, media per i Paesi dell’Est, alta per i Paesi del Sud, Italia e Grecia in testa. Ci sono delle somiglianze, ma non c’è un vero e proprio «mal comune» da superare insieme; ciascuno può teoricamente fare da solo chiudendo le frontiere. Durante la crisi Covid, nessun Paese poteva difendersi in questo modo dal virus. Il sentirsi parte della stessa barca ha facilitato in quel caso l’adozione di risposte comuni. Nella gestione dei flussi domina invece la logica dello scaricabarile, per quanto riprovevole sul piano etico e umanitario.
Per chiudere la cosiddetta rotta balcanica, nel 2017 la Ue versò dei soldi (tanti) alla Turchia di Erdogan perché trattenesse i profughi sul proprio territorio. Fermamente voluta dalla Germania, questa soluzione non è certo stata edificante (condizioni di vita precarie nei campi, violazione di diritti umani, deportazioni forzate). È però una esperienza che si può ripetere in forma più virtuosa. Un massiccio piano di aiuti ai Paesi africani di origine e di transito potrebbe convenire a tutti. Pensiamo a vantaggi come una maggiore stabilità politica dell’area, la formazione di capitale umano in linea con le esigenze europee di manodopera, l’espansione dei mercati. E non da ultimo, un maggiore rispetto dei diritti umani in un continente dove, in alcune zone, vige ancora la schiavitù.
Giorgia Meloni si è fatta promotrice di una iniziativa in tale direzione con la Tunisia. Ieri si è recata in questo Paese insieme alla presidente von der Leyen e al premier olandese Rutte. Stipulare un accordo con Tunisi sarebbe un passo importante. Purché il progetto sia bene impostato e ben gestito. Evitando di trasformarsi in un nuovo (e, diciamolo, inumano) scaricabarile esterno.