19 Settembre 2024

Far coincidere terrorismo e immigrazione è un errore, ma il pericolo di una nuova ondata jihadista è reale

Far coincidere terrorismo e immigrazione come un tic del discorso pubblico può rivelarsi, prima ancora che un’ingiustizia, un grosso errore: causa di tensioni tra ultimi e penultimi nei recessi più problematici delle nostre comunità nazionali. Ma non vedere le falle che il pericolo di una nuova ondata jihadista mette a nudo nella gestione dei migranti in Italia e in Europa sarebbe addirittura un sintomo di cecità.
In questa materia, è utile ripeterlo, occorrerebbero misura e pragmatismo laddove molta pubblicistica è improntata a spirito di fazione e opportunismo elettorale (il voto di giugno già incombe nella Ue). È tuttavia evidente come regole e procedure vadano cambiate in fretta, purtroppo quasi in corso d’opera visto il mutamento di scenario che gli orrori del 7 ottobre e le loro conseguenze hanno prodotto in Medio Oriente, con un immediato contagio nelle piazze più esposte al radicalismo islamico: dunque, prima che gli eventi ci sorprendano di nuovo.
Verrebbe da dire che non ci serviva il raid criminale di Abdesalem Lassoued a Bruxelles per sapere quanto l’accordo di Dublino (quello che incardina il migrante nel Paese di primo approdo a prescindere dalla sua destinazione finale) sia obsoleto.
È un regolamento nato e pensato in un’altra era delle migrazioni e dei rapporti tra Nord e Sud del pianeta: «Come fare un salto nel Pleistocene», ha spiegato il presidente Mattarella con efficacia. E neppure ci occorreva altro sangue versato per scoprire la fragilità degli apparati di sicurezza belgi, purtroppo già evidenziata dalla crisi degli attentati di metà anni Dieci. O la nostra tendenza a «girarci dall’altra parte» sui movimenti secondari dei flussi, quasi per una naturale reazione difensiva contro i vincoli di Dublino: notoriamente, una notevole porzione di migranti sbarca sulle nostre coste per poi arrivare altrove e noi, distraendoci, tra registrazioni Eurodac dimenticate e impronte digitali mai prese, siamo riusciti in una decina d’anni a lasciarne filtrare nell’Europa settentrionale più di trecentomila, andando così a rimpinguare sottobanco quell’esercito di «dublinanti» che ci viene rinfacciato in tutti i tavoli comunitari.
No, non ce n’era bisogno, tutto era già noto. Eppure, l’impresa di morte del terrorista tunisino è un terribile memento, specie se inquadrata negli allarmi che da giorni risuonano in tutta l’Unione e, più che mai, in una Francia ipersensibile per le sue cicatrici del Bataclan, Nizza e Charlie Hebdo, i suoi professori nel mirino e il suo esodo di cittadini ebrei resi insicuri dal radicalismo musulmano.
Lassoued, con la sua storia storta, è una specie di compendio dei nostri errori. Viveva a Schaarbeek, il sobborgo brussellese che con Molenbeek è culla di jihadismo ma anche terra piagata da criminalità e disoccupazione. E però era sbarcato su un barcone a Porto Empedocle dodici anni prima, scappando grazie alle primavere arabe da una prigione tunisina dov’era finito per reati comuni, da balordo. Per dodici anni lo abbiamo lasciato rimbalzare come una pallina da flipper fra Italia, Norvegia, Svezia e Belgio, ciascuno Stato nella speranza che un altro se ne facesse carico o riuscisse a disfarsene. Tra emarginazione, decreti di rimpatrio, centri di detenzione amministrativa, vagabondaggio, odio. Rispedito due volte in Italia da «dublinante», risalito due volte verso il Nordeuropa da clandestino, fino all’ultima magistrale tappa a Caltanissetta nel 2016: chiuso in un Cie con foglio di espulsione, fa ricorso, gli fissano l’udienza a tre mesi e nelle more lo liberano; lui sparisce per sempre dai radar, fantasma tra i cinquecentomila invisibili che vagano per il nostro Paese prima di fuggire in Belgio. Non era uno di quei radicalizzati che, secondo un recente dossier, passerebbero, uno su sei, sopra i barconi. Era uno di quelli che impazziscono dopo, qui, tra noi, rimuginando rancori, indottrinandosi col più pericoloso dei propagandisti, «l’imam Google», la Rete quale moschea di radicalizzazione fai-da-te: era parte di una stragrande maggioranza di possibili lupi solitari, poiché non è certo impossibile ma è assai improbabile che organizzazioni terroristiche strutturate mettano a rischio i propri affiliati sulle carrette del mare. Questa constatazione di buonsenso non è consolante, poiché il delirio dei singoli chiama forse in causa ancor di più i ritardi, nostri e dell’Europa, nel fare fronte comune sulla repressione e sull’integrazione.
La storia non si ripete ma talvolta fa rima con sé stessa, diceva Mark Twain. Sicché va preso assai sul serio il monito di Biden a non replicare gli errori americani dopo l’11 settembre, quella mancanza di visione in Iraq, in Libia e in Siria che sfociò nella nascita dell’infame Califfato dell’Isis. La crisi mediorientale di questi giorni, incasellata in una tendenza all’entropia globale, rischia di produrre effetti non dissimili, con una ricaduta molto pesante sulle città europee. Dunque, la sospensione di Schengen, il nostro trattato di libera circolazione, è una comprensibile reazione d’istinto: «Non è morto ma è rotto, dobbiamo ripararlo», ha detto il ministro degli Interni austriaco, Kerner. E tuttavia, senza una adeguata protezione dei confini comuni, Schengen non risorgerà com’era. Su un sistema europeo centralizzato per le espulsioni si lavora da anni: ma se nell’Unione solo un espulso su cinque torna effettivamente a casa, la debolezza non è solo italiana. Così è più che mai necessaria una risposta di sicurezza comune e una comune trattativa europea con i Paesi di provenienza: non solo per rimpatriare, ma per filtrare chi merita e indirizzare chi può e deve arrivare. Nel 2050 i ragazzi africani sopravanzeranno di dieci volte quelli europei. Vedere in essi solo una minaccia condurrebbe il nostro continente a un lento suicidio.

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