Il generale Stefano Messina, alla guida della Brigata Sassari a Shama: «Violazioni costanti da entrambe le parti della risoluzione Onu, la blue line è deserta. Non siamo qui per fare la guerra ma in peacekeeping»
«Ci troviamo di fronte a una situazione imprevedibile, nella quale dobbiamo essere pronti a qualsiasi scenario e per questo i piani vengono aggiornati di continuo. Il nostro lavoro prosegue come sempre: sono decine ogni giorno le segnalazioni fatte dall’Unifil, e quindi anche da noi, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu su violazioni lungo la blue line, da una parte e dall’altra: sconfinamenti di droni, colpi d’arma da fuoco e di artiglieria. Ma anche jet che sorvolano la zona cuscinetto per le missioni di bombardamento». Da meno di due mesi il generale di brigata Stefano Messina è in prima linea, nella base «Millevoi» a Shama, sullo scenario israelo-libanese. La Brigata Sassari, per la terza volta in missione in Libano – fino a febbraio 2025 -, dove l’Italia in ambito Unifil è presente addirittura dal 1978, ha preso il posto degli alpini della Taurinense nel Settore ovest in uno dei momenti peggiori dopo la strage di Hamas del 7 ottobre scorso e la risposta di Tel Aviv con l’invasione di Gaza.
Generale, è in corso un’escalation militare fra Hezbollah e Israele. Allora non siamo solo spettatori?
«Certamente no, il nostro ruolo è sempre stato molto attivo e lo è tuttora. Ogni giorno e ogni notte siamo impegnati nel pattugliamento del territorio e in attività operative, anche in maniera congiunta con l’esercito libanese. Allo stesso tempo sentiamo e vediamo gli effetti dei bombardamenti, l’ultima volta proprio all’alba di domenica i colpi sono arrivati anche non molto lontano dalla nostra base. Siamo andati nei rifugi a scopo precauzionale, per capire meglio cosa stesse accadendo e poi abbiamo ripreso le nostre normali attività di controllo>.
In caso di riscontro di una violazione della risoluzione 1701 dell’Onu cosa accade?
«Siamo in costante contatto con il ministro della Difesa Guido Crosetto e con il Covi, il Comando operativo di vertice interforze, ai quali riportiamo tutte le informazioni raccolte seguendo la linea di comando tradizionale. Ma siamo anche tecnicamente sotto le Nazioni Unite e quindi i rapporti vengono riferiti alla base di Unifil a Naqoura, che a sua volta li segnala al Consiglio di sicurezza a New York. Il monitoraggio è continuo, ripeto, come anche le violazioni che registriamo».
C’è chi critica l’Unifil dicendo che potrebbe fare di più.
«Il nostro compito non è fare la guerra a qualcuno. Le nostre regole d’ingaggio sono chiare, è una missione di peacekeeping con norme stabilite dalle Nazioni unite. Abbiamo l’incarico di fare di tutto per ridurre le tensioni sul campo di esortare gli attori coinvolti a rispettare quella risoluzione».
C’è comunque qualcosa che potrebbe aiutare in questo momento a frenare l’escalation?
«Credo che ripristinare il Forum tripartito a Naqoura fra Unifil, autorità israeliane e libanesi interrotto nel 2023 sarebbe una cosa buona. Finché gli attori in campo si parlano è sempre positivo, anche perché in passato il Forum è servito proprio per analizzare le violazioni che venivano commesse lungo la blue line e a trovare una soluzione comune sui punti di frizione fra le parti. E per quanto possibile qualcuno di essi è stato risolto».
Qual è il morale dei nostri soldati?
«È alto e non potrebbe essere altrimenti. Siamo sereni, anche perché abituati a operare in scenari complessi e con un bagaglio di esperienza consolidato perché maturato in diversi teatri operativi. Lo staff principale è composto da personale per la seconda-terza volta in Libano. I nostri 1.200 militari possono contare su misure di sicurezza adeguate che ci consentono di portare avanti il mandato che ci è stato assegnato. Non siamo soli perché nel nostro settore ci sono anche le cinque sub-aree con soldati del Ghana, Irlanda e Polonia, Malesia e Sud Corea, anche se la responsabilità nell’ambito di Unifil è italiana>.
La popolazione locale invece soffre moltissimo.
«Esatto, ed è quello che più ci impressiona. Basti pensare che gli sfollati sono circa 170mila: 100mila profughi libanesi che sono stati costretti ad abbandonare le loro case per fuggire verso nord, e altri 70mila israeliani che invece sono dovuti andare a sud per evitare di rimanere coinvolti negli attacchi. Fa impressione passare per villaggi di confine che sono ormai abbandonati, praticamente fantasma. Lungo la blue line la popolazione è fuggita in un attimo, spesso senza riuscire a portarsi dietro nulla. É come se il tempo si fosse fermato: in strada non c’è nessuno e nei negozi la merce è ancora sugli scaffali».
In che modo state vicino a chi cerca di sopravvivere?
«Di recente abbiamo donato a Tiro materiale umanitario di vario genere. La gente qui ha perso tutto, oltre alla casa. Ci sono problemi di sussistenza e le nostre basi sono in grado di dare assistenza sotto molti aspetti, come quello sanitario, ma anche psicologico, soprattutto alle donne. Cerchiamo di portare avanti progetti scolastici e negli incontri con la popolazione ascoltiamo i bisogni di chi è rimasto qui, tentando di far fronte alle richieste con le risorse disponibili. Ad esempio qui manca ormai un servizio pubblico affidabile per la distribuzione dell’energia elettrica e quindi abbiamo fornito piccoli generatori>.
A Tiro alcuni giovani filo Hezbollah hanno lanciato sassi contro i blindati Unifil dell’esercito malese. Siete preoccupati?
«No, anche perché la nostra presenza in Libano è pluridecennale e quindi molto consolidata sul territorio. E comunque si è trattato di un episodio isolato probabilmente collegato alla pressione psicologica dopo gli attacchi mirati contro i leader di Hezbollah. Qui ormai conoscono bene gli italiani, anche i più giovani».