20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

Ma quanto ha a che fare questa nostra non-politica estera con le missioni militari all’estero e con i rischi che pesano sui nostri militari? Moltissimo


Sul finire della guerra del Vietnam si diceva che i soldati americani «combattevano con un braccio legato dietro la schiena». Voleva dire, quella battuta per nulla scherzosa, che i marines schierati al fronte non avevano l’appoggio del fronte interno, che l’opinione pubblica, nella Patria lontana, voleva il loro ritiro più della loro vittoria. Per fortuna le missioni all’estero dei soldati italiani sono lontane dal tragico esempio vietnamita: il loro compito è di garantire una pace già raggiunta, di addestrare forze locali, di stabilizzare zone percorse da conflitti latenti. Ma attenzione, perché in Afghanistan, prima del cambiamento di ruolo, la nostra «missione di pace» ha avuto 54 morti. Attenzione, perché oggi è il sedicesimo anniversario della strage di Nassiriya che nel 2003 uccise 17 militari e due civili. E attenzione perché i cinque appartenenti alle Forze Speciali saltati probabilmente su una mina rudimentale a sud di Kirkuk, svolgevano un compito per definizione segreto. E come il loro altri reparti possono dover affrontare analoghi rischi nel prossimo futuro.
Mentre esprimiamo una solidarietà non di circostanza ai feriti e ci inchiniamo davanti ai caduti, il nostro dovere è allora di chiederci se per caso anche i nostri soldati abbiano, almeno in parte, un braccio legato dietro la schiena. Dobbiamo chiederci se la nostra politica estera garantisca ai nostri soldati un adeguato appoggio, al di là del rito semestrale del finanziamento parlamentare. Se un Paese confuso come il nostro, con priorità assai diverse che vanno dell’ex Ilva alla ricerca perenne di un minimo di stabilità governativa, abbia la forza e soprattutto la voglia di stringersi ai suoi figli in armi quando non sono impegnati a spalare fango o a soccorrere terremotati.
La nostra politica estera. Quale, di preciso? Quella che ci vede respingere oggi un rapporto con la Russia alimentato sei mesi fa con modalità che restano da chiarire, o quella che oggi ci crea problemi con gli Stati Uniti desiderosi di coinvolgerci nel loro Russiagate? Quella che ci vede spesso in ritardo nelle prese di posizione su grandi fatti internazionali (citiamo per tutti i disordini di Hong Kong) o che ci tiene ai margini di riunioni che dovrebbero coinvolgerci (esempio: l’incontro franco-tedesco sui Balcani)? Quella che in attesa della conferenza di Berlino non sembra favorire una iniziativa italiana sulle questione Libia, che pure dovrebbe essere una nostra priorità? L’elenco potrebbe continuare, ma basterà dire che l’Italia, sfinita dai suoi problemi interni, ha troppo poche energie (e troppo pochi mezzi finanziari) per riuscire ad affermare una sua credibilità internazionale. È già tanto se si guarda a Bruxelles, nella speranza che un governo meno «cattivo» del precedente ottenga comprensione.
Ma quanto ha a che fare questa nostra non-politica estera con le missioni militari all’estero e con i rischi che pesano sui nostri militari? Moltissimo. Perché le missioni militari all’estero, non da ieri, hanno di fatto sostituito la nostra timida politica estera compensando assenze o mancanze di iniziativa. In ogni sede ancora oggi possiamo dire che abbiamo seimila uomini in armi sparsi per il mondo in missioni che vengono apprezzate dalla comunità internazionale, ed è proprio questo biglietto da visita che rende alla fine accettabile il nostro status, che ci consente, talvolta, di dire la nostra. E status internazionale, soprattutto in un mondo in pieno disordine, vuol dire anche commerci, rapporti con chi conta più di noi, orizzonti più ampi per l’economia.
Le missioni militari sono uno dei pochi capitali che abbiamo saputo spendere. Ed è per questo che i nostri dirigenti non devono aspettare l’incidente o il lutto per spiegarne il senso alla pubblica opinione, non devono accettare nemmeno la più lieve impressione che i nostri soldati abbiano una mano, se non il braccio, legata dietro la schiena. Semmai va fatta una riflessione geopolitica, e anche questa sembra mancare. Dall’Afghanistan andremo via se e quando Trump avrà recuperato un accordo con i Talebani, ma possiamo e dobbiamo far presente agli Usa che una guerra persa non può coinvolgerci senza limiti di tempo. In Libano dobbiamo rimanere sperando che le tempeste mediorientali non rendano superfluo il ruolo dell’Unifil. In Siria sono presenti poche truppe speciali francesi e britanniche e i tedeschi partecipano alla ricognizione aerea, ma andar lì significa sparare (cosa che noi cerchiamo di non fare, in modo talvolta controverso) . E mentre è giusto criticare l’Europa per le sue divisioni politiche seguite al ritiro degli americani, all’invasione turca e al ripiegamento forzato dei curdi, è a dir poco irrealistico lamentare l’assenza militare dell’Europa in quello scacchiere. Piuttosto, sarebbe saggio da parte nostra incrementare le missioni sulla sponda sud del Mediterraneo. In Libia abbiamo 200 uomini a Misurata, a protezione di un ospedale, e probabilmente i libici non ne accetterebbero di più. Ma la battaglia per la nostra sicurezza prossima ventura, e anche quella per frenare i flussi migratori incontrollati, si combatte più a sud, nel Sahel dove, dopo ripetuti equivoci con francesi e americani, abbiamo inviato una cinquantina di militari inoperosi.
Ridisegnare alcune missioni, questa è la sfida che il governo deve cogliere. Provando a smuovere anche gli altri soci della Ue. E senza perdere di vista gli appuntamenti che molto hanno a che fare con il futuro incerto della sicurezza europea, a cominciare dal vertice della Nato di dicembre a Londra.

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