Fonte: Corriere della Sera
di Aldo Cazzullo
Il premier e l’ex presidente del Consiglio hanno opposte visioni sui rapporti con la Ue
Ci sono antipatie che si rivelano anche grandi semplificazioni. Mario Monti e Matteo Renzi si sono subito stati reciprocamente sulle scatole. E mercoledì sera il conflitto è deflagrato, senza neppure l’aplomb tra premier in carica e premier emerito, oltretutto fondatore di un partito che sostiene il governo. Uno è flemmatico, l’altro sbrigativo. Uno è freddo, l’altro fumantino. Uno è di Varese, quasi svizzero, l’altro fiorentino del contado. Uno parla in sussurri, all’altro capita di alzare il tono. Uno ha fatto una bandiera del suo loden anglosassone, l’altro del suo giubbotto di pelle alla Arthur Fonzarelli. Uno parla inglese con accento di Oxford, l’altro di Rignano. Uno ha Enzo Moavero Milanesi, l’altro ha Luca Lotti. Uno sosteneva che gli italiani dovessero cambiare, l’altro dice di voler «cambiare l’Italia, non gli italiani, che mi piacciono così come sono». Uno è un professore, anzi un «professorone» come dice Renzi, a lungo rettore della più prestigiosa università privata d’Italia; l’altro è stato uno studente brillante ma impaziente, di quelli che vogliono saperne più dell’insegnante: a 17 anni sul giornalino del liceo Dante chiedeva le dimissioni del segretario Dc Forlani; mancò il 110 (si laureò con 109) perché discutendo la tesi aveva litigato con il relatore.
Il mondo di Mario Monti è quello delle élite transnazionali: i grandi atenei, le istituzioni europee, i think-tank, i club in cui i finanzieri incontrano gli economisti; insomma, «i convegni dove si dibatte, si mangiano le tartine al salmone, e non se ne azzecca una da vent’anni» come disse Renzi inaugurando il rubinettificio Bonomi a Gussago nel giorno in cui Monti come d’abitudine presiedeva una tavola rotonda a Cernobbio (dove l’anno dopo però è andato anche Renzi, atterrando in elicottero). Il Rottamatore è in fondo anch’egli — quasi come Grillo — figlio della rivolta non solo italiana contro le élite, l’establishment, le euro-burocrazie, la classe dirigente tradizionale, di cui il professore è espressione. E se il ruolo l’ha indotto o costretto a moderare linguaggio e stile, gli attacchi come quello che Monti gli ha portato a Palazzo Madama, in una serata già nera per lo stop alla legge sulle unioni civili, sono per Renzi quasi un balsamo.
Se Monti — per quanto affilato, talvolta duro — tende alla mediazione, per Renzi il nemico è un’esigenza strategica e caratteriale. Meglio se il nemico ha il volto non popolarissimo delle grandi banche, dei burocrati, degli «esperti»: «Gli esperti hanno fatto il Titanic, i dilettanti hanno fatto l’Arca che salvò l’umanità dal diluvio» è un’altra delle sue frasi preferite. Un istinto cui Monti oppone un ragionamento: i veri «poteri forti» non sono le istituzioni, ma le multinazionali della New Economy, che piacciono tanto a Renzi e a quelli come lui ma distruggono più lavoro di quanto ne creino, accumulano e vendono dati sui consumatori, pagano malvolentieri le tasse; per questo considera il gioiello del suo curriculum la battaglia vinta contro Microsoft da commissario europeo alla concorrenza.
Ma il vero terreno di scontro tra i due è l’Europa. Monti per Renzi è l’archetipo del presidente del Consiglio che va a Bruxelles e a Berlino «con il cappello in mano», curando l’accento british, badando al proprio percorso personale non meno che all’interesse nazionale, e quasi scusandosi di essere italiano: come a dire, «fossi per me farei tutto quello che mi dite e che va fatto, peccato avere dietro un Paese come l’Italia…». Renzi invece si sente il primo presidente del Consiglio che va in Europa non a prendere ordini, ma con il retropensiero di poterne dare. Dentro di sé va facendo in sostanza questo ragionamento: la Merkel è entrata nella sua parabola discendente, non la vogliono più neppure quelli del suo partito; Hollande sta in piedi per miracolo, forse non arriva neanche al ballottaggio delle presidenziali; Cameron vuole quasi uscire; la Polonia si è messa fuori gioco da sola; la Spagna non riesce a fare un governo; insomma, «l’Italia può essere leader in Europa». E nella testa di Renzi l’Italia in questo momento è lui. Un’idea che Monti ha intuito, e che intende rivoltare contro il premier accusandolo di «fare il male dell’Europa».
Tutto lascia credere che la partita tra i due mondi sia appena cominciata. Il Mario Monti che a sorpresa dà battaglia in Senato è il simbolo di un establishment italiano ed europeo che si è stancato di Renzi, o che l’ha visto fin dall’inizio come un «barbaro», un estraneo, un alieno, mentre dovrebbe riconoscergli se non altro di aver portato nel sistema una carica di energia; così come il premier dovrebbe riconoscere che Monti non è l’agente di un complotto, ma esprime il timore diffuso che l’Italia possa ricadere nell’isolamento e nel vizio della spesa facile. Renzi ha una sola carta da giocare: non tanto il partito, diviso su tutto; quanto il consenso. Il referendum di ottobre, che cercherà di impostare proprio sul binomio riforme-conservazione, popolo-élite, rottamazione-antico regime, sarà lo spartiacque per capire quale tra i due mondi governerà la difficile uscita dell’Italia dalla grande crisi.